La realizzazione di quest’opera è stata resa possibile in collaborazione con il CAI – Club Alpino Italiano.

SOMMARIO

PREFAZIONE

Erich Abram è stato una delle più straordinarie personalità dell’Alto Adige e tra le più note oltre i confini locali. La sua popolarità è legata certo alla sua partecipazione alla spedizione italiana sul K2 e alla successiva professione di pilota, ma soprattutto al suo temperamento aperto ed equanime, che lo portava a confrontarsi schiettamente con chiunque. In fondo, Abram era una persona molto modesta. Lavorò duramente e con grande passione per i propri successi, ma stare sotto i riflettori non gli interessava. Ricordo bene quando, da giovane alpinista, scalai diverse vie già percorse da Erich, ma allora di lui sapevo poco. Ad avvicinarmi a lui furono il mio interesse per il volo e i racconti che leggevo sul giornale dei suoi spettacolari interventi di salvataggio.

Negli anni ottanta ebbi poi per qualche giorno il privilegio di prestare servizio di pronto intervento con Erich in una vecchia baracca prefabbricata vicino all’ospedale di Bolzano. Il “servizio di elisoccorso sudtirolese” (Rettungsflugwacht Südtirol) era stato da poco tenuto a battesimo da un manipolo di idealisti: era un primo tentativo di dare all’Alto Adige un elisoccorso professionale, un’impresa che però era condannata fin da subito a fallire per vari motivi. Erich era stato cooptato come pilota, aveva cinquantotto anni ed era in splendida forma. Il Lama arancione non decollò per nessun intervento, ma una sera Erich mi portò con sé a Trento alla base dell’elicottero. Sua moglie Carla venne a prenderci all’aeroporto e mi portò alla stazione.

L’ho rivista tre decenni più tardi, quando ormai suo marito aveva lasciato questo mondo, e abbiamo trascorso molte ore insieme per trasformare i suoi ricordi e racconti in una storia, la storia di Erich Abram.

Christjan Ladurner

Erich sul Jebel-Erba in Sudan, 1979.
Dove c’era qualcosa da arrampicare, Erich doveva arrampicarsi.

Salita in pieno inverno della difficilissima Via Solleder
sulla parete Nord-Ovest del Civetta – Erich al bivacco

LA VITA DI ERICH

Bolzano, capoluogo dell’Alto Adige, da secoli una città a vocazione commerciale e ancora oggi dotata di fascino, nonché di una ricca offerta culturale. Nella parte sud della città il regime fascista negli anni Trenta del secolo scorso estirpò con gran zelo i frutteti per erigere al loro posto una zona industriale di tutto rispetto. E al confine col centro storico fu realizzato un nuovo quartiere, una piccola “Italia” le cui sfarzose architetture fasciste si possono ammirare ancora oggi. A dispetto dell’alacrità con cui se ne perseguì l’italianizzazione, tuttavia, si sono conservati angoli romantici, edifici storici e graziosi vicoli. Tra questi c’è via Monte Tondo, nel nord della città. La cosa migliore è raggiungerla a piedi, è una strada stretta e i parcheggi sono pochi. Il palazzo al civico numero 5, un bell’edificio storico della Bolzano commerciale con un ingresso signorile, si trova quasi alla fine della via, nel punto in cui inizia il versante che porta un po’ alla volta all’altopiano del Renon. Sotto il pulsante del campanello c’è una grande e lucida targa in ottone con il nome Erich Abram. Ho una breve esitazione, quasi un poco intimidito, prima di premere il pulsante. Qui dunque viveva Erich Abram. Tra una settimana partirò per una lunga stagione invernale, come ogni anno. Prima di andarmene, però, voglio parlare con Carla, la vedova di Erich, che è stata sua moglie per trentacinque anni.

Al secondo piano una porta grande e bella, e un’altra targa con il suo nome. Ho come la sensazione che sia Erich ad aprirmi la porta, ma è Carla ad accogliermi con grande cordialità. “Non ci siamo mai conosciuti?” domanda mentre mi prega di entrare. Le dico di sì e le racconto di quando, quasi trent’anni fa, volai con Erich da Bolzano a Trento e lei ci venne a prendere all’aeroporto per poi portarmi in stazione. Carla sorride, assorta nei suoi pensieri, mentre mi accompagna nell’accogliente stube in pino cembro. Ci sono immagini di Erich ovunque. Erich scalatore, Erich durante una spedizione, con piccozza ed equipaggiamento da alpinista. Sembra quasi che se ne sia andato solo poco fa. Rimango in mezzo alla stube un po’ imbarazzato, mi guardo intorno senza sapere cosa dire. Carla è sulla soglia della stanza, è quasi un sussurro quando dice: “Mi manca tanto…”

La targhetta d’ottone con il suo nome sulla porta di casa

Erich Abram con la moglie Carla a Ischia, 1984

Come potrò riuscire, mi chiedo, a scrivere questa biografia, che – come ho appena capito – non sarà una biografia, ma un racconto, una composizione di frammenti, esperienze e sentimenti profondi?

Tra queste mura inizia dunque la storia di un uomo che ha vissuto un’esistenza straordinaria. Una vita che inizia nel 1922 e termina novantaquattro anni dopo. L’arco di tempo coperto da questo racconto comprende due guerre mondiali, l’epoca del fascismo e delle opzioni in Alto Adige, nonché gli anni d’oro che questa piccola terra fra le montagne ha vissuto negli ultimi decenni. Anche per questo la storia di questa vita è così degna di nota.

Assieme a Carla Setti, la moglie di Erich Abram, che lo ha accompagnato fino alla dipartita da questo mondo il 16 gennaio 2017, ho cercato di ricostruirne l’esistenza. È stato spesso difficile o faticoso trovare testimoni che potessero raccontare di Erich. Non c’è da stupirsi, poiché Erich, semplicemente, è sopravvissuto a molti dei suoi amici, compagni di cordata e di volo. Carla invece è un libro aperto e colmo di infinite notazioni che risalgono fino all’infanzia del marito. A volte me ne tornavo a casa scuotendo la testa dopo aver ascoltato dettagli che parevano provenire da un mondo estraneo e lontano. Avvenimenti, date e nomi di persone, come faceva a ricordarsi tutte queste cose? Spesso ho eseguito ricerche ulteriori a mo’ di verifica, e ogni volta i suoi racconti trovavano conferma. Per questo credo di poter offrire al lettore una raccolta di ricordi, storie e frammenti che finiscono per comporsi in un tutto, la vita di Erich Abram, alpinista, pilota e imprenditore sudtirolese.

In seguito, quando chiesi a Carla come avesse conosciuto Erich, lei parve fermarsi un istante, poi disse: “In elicottero”. Seguì un momento di profondo silenzio. Forse non avrei dovuto chiederglielo? Aveva condiviso più di trentacinque anni con quest’uomo straordinario, quasi un terzo della sua vita. Ora eravamo seduti uno di fronte all’altro a Bolzano, al Caffè Città in piazza Walther; in silenzio. Tutt’a un tratto Carla iniziò a raccontare.

“Ero una ragazzina, i miei genitori si erano trasferiti da Rovereto a Trento quando avevo due anni. Qui si trovava anche la sede di Elitalia, la compagnia elicotteristica per la quale allora Erich volava. Sulla Paganella, un massiccio a ovest della città, c’era un rifugio alpino, e accanto ad esso un ripetitore di una televisione privata. Questo impianto veniva spesso raggiunto in elicottero, e il responsabile della manutenzione era un mio amico. Una volta – avevo 25 anni – mi prese a bordo con sé per un volo di controllo. Era pieno inverno, faceva freddo e la Paganella era ammantata di neve. L’antenna richiedeva un intervento urgente. Il rifugio nella stagione fredda era chiuso e non raggiungibile a piedi, così mi ritrovai in un elicottero da alta quota modello Lama pilotato da Erich. Atterrammo davanti al rifugio, all’interno del quale faceva molto più freddo che nel sole di mezzogiorno lassù sulla Paganella. Il mio amico aveva chiesto al gestore di aprire il rifugio per noi. Mentre venivano svolti quei lavori improcrastinabili, aprimmo le finestre per far entrare un po’ di calore tra le mura fredde, e intanto preparammo il pranzo. Il volo in elicottero, il tepore del sole invernale, un autentico pranzo trentino nonostante il rifugio chiuso; il resto m’interessava poco. In seguito bisognava andare a prendere un pezzo di ricambio in località Fai della Paganella. Poiché conoscevo il luogo e anche il fornitore del materiale, divenni per così dire l’assistente di volo di Erich. Dopo l’atterraggio a Fai dovemmo aspettare che ci consegnassero il pezzo ed Erich a bordo dell’elicottero iniziò a riassumere, nel suo modo spensierato, la vita che aveva condotto fino a quel momento. Lo guardai sbalordita quando raccontò della guerra e della prigionia, e lui mi chiese se me ne ricordassi. Che cosa potevo ricordare, pensai, all’epoca non ero ancora nata! Mi raccontò anche che soffriva di terribili dolori alla spalla, benché a volare ci riuscisse comunque. La settimana prima, all’inaugurazione del nuovo palazzetto del ghiaccio di Ora per cui la ditta Frigotherm, di cui Erich era socio, aveva fornito e installato l’impianto di refrigerazione, era presente l’intero team aziendale, tutti sui pattini da ghiaccio. Erich però, benché fosse un buon pattinatore, ebbe qualche problema con quelli che aveva noleggiato e fece un bel capitombolo tra i fragorosi applausi degli spettatori. Con la spalla dolente e sorridendo un poco – poiché nulla poteva fargli perdere la calma tanto facilmente, figuriamoci un capitombolo in uno stadio del ghiaccio gremito di gente –, si ripulì i pantaloni e seguitò nei suoi giri.

Perché le racconto tutto questo? Eravamo già sposati da molto tempo, lui era in età avanzata, aveva già superato gli ottanta, e durante un’escursione che facemmo insieme volevo raccogliere fiori di sambuco. Erich, che era un gentiluomo, volle a tutti i costi farlo per me. A un certo punto la pietra su cui Erich stava ebbe un cedimento. Non potei fare altro che guardare inorridita. La scivolata finì con una brutta caduta. Stavolta ero io l’unica spettatrice, e un Erich imprecante lamentava forti dolori alla spalla. Non volle farsi aiutare e respinse con decisione l’idea di andare in ospedale. Io però lo portai di filato e ancora imprecante al pronto soccorso, dove lo trasferirono subito in radiologia. Tutto bene, disse il medico quando Erich ricomparve. Aggiunse poi che però, a quanto pareva, molti decenni prima aveva già patito una brutta caduta, la spalla si era rotta e si era poi risistemata da sola. Se Erich avesse voluto riconquistare la completa mobilità della spalla, si sarebbe dovuto operarlo. In quel momento ricordai il mio primo volo con Erich, l’atterraggio a Fai della Paganella e il suo racconto della caduta nel palazzetto del ghiaccio. Nei decenni trascorsi da allora Erich aveva fatto molte scalate e salite, anche su itinerari difficili, per questo pensai che forse l’operazione si sarebbe potuta rinviare…

Quel giorno, una volta rientrati a Trento, Erich mi aveva chiesto il numero di telefono. Del telefono fisso, s’intende, tutto all’epoca era molto più complicato, ma anche molto più semplice. Non avrei risposto alle chiamate, poiché lavoravo a Levico e tornavo a casa solo nei fine settimana. Ha chiamato Erich, mi comunicava mia madre. Io la ringraziavo e dimenticavo la telefonata mentre mi occupavo di altre cose. “Ha chiamato Erich” divenne una frase ricorrente nella bocca di mia madre. Lei rispondeva gentilmente, pensava “ambasciator non porta pena”, mentre a me quelle telefonate non interessavano particolarmente. È un tipo così simpatico, diceva lei. Una volta si era presentato con dell’olio d’oliva dal Sud Italia, dove in estate era stato impiegato con l’elicottero per spegnere incendi.

Un giorno m’invitò a un’escursione lungo una ferrata. Con indosso foulard e belle scarpe da città – dopotutto ero una signorina con interessi diversi dal risalire la ferrata di Mori – lo seguii lungo il sottile e ripido sentiero fino al santuario. Lassù per me la gita era finita. Erich non si lasciò scomporre da una giovane donna ben vestita e disse che sarebbe ritornato subito. La parte ferrata la fece da solo mentre io m’intrattenevo con il sagrestano, che quasi con timore reverenziale mi fece notare che il mio accompagnatore era Erich Abram, uno scalatore molto conosciuto, anzi, si sarebbe quasi potuto dire famoso. Il suo nome veniva associato alla scalata del K2 e ad altre difficili salite nelle Dolomiti! Malgrado questo il mio interesse rimaneva contenuto…

La volta successiva in cui Erich volle invitarmi, avevo l’influenza. Non era proprio così in verità, ma mi erano giunte alle orecchie diverse storie. La compagnia elicotteristica Elitalia all’epoca era un ambiente esclusivamente maschile, e cose come questa mi disturbavano, il mio umore non era dei migliori. Erich volle a tutti i costi fare visita alla ragazza “malata” e io gli diedi una vera lavata di capo. Candido com’era, lui si scusò e disse – non riuscii a crederci, poiché gli avevo appena detto come la pensavo – che in un anno saremmo comunque stati sposati.

Non potrei dirlo con certezza, ma forse me l’aspettavo che un uomo un giorno mi facesse una proposta di matrimonio. Volevo esserci per qualcuno, condividere con qualcuno la mia giovane vita. Forse Erich, che non mostrava affatto la sua età, che si teneva splendidamente in forma, sapeva raccontare bene e, come si dice oggi, era molto “smart”, e in più era un bell’uomo, forse lui con la sua affermazione era capitato nella mia vita al momento giusto. In seguito abbiamo convissuto due anni, a un certo punto mi sono trasferita a Bolzano e nel 1984 ci siamo sposati. Ha avuto proprio coraggio, mi dico oggi. Era il suo secondo matrimonio. Sì, ha avuto proprio coraggio a sposare una donna giovane, a condividere la sua vita con me. Erich guardava sempre avanti, i ricordi erano i suoi, belli o meno belli che fossero. Raccontava spesso e volentieri di quel che aveva vissuto, ma il rimpianto non sapeva cosa fosse. Il futuro, anche il nostro in comune, gli riservava così tanto. Fin da subito mi affidò la custodia della casa in via Monte Tondo, e io mi assunsi per lui anche lavori di scrittura e altre cose. Spesso ero con lui quando veniva impiegato con l’elicottero in Sud Italia per domare gli incendi. Ha avuto proprio coraggio”, ripeté Carla, un poco assorta nei suoi pensieri, mentre io pensavo: chi avrà avuto più coraggio tra i due…

Erich Abram era un uomo di buona famiglia. Nacque il 13 giugno 1922 nella cittadina di Vipiteno, poco sotto il Passo del Brennero. La famiglia abitava in una villa in mezzo al bosco che apparteneva alla nonna, figlia a sua volta di una famiglia bolzanina benestante. Un giorno, quando Erich era ormai molto anziano, Carla lo condusse a Vipiteno per trovare la casa in cui lui aveva trascorso i primi anni di vita. Era una sorta di regalo, poiché la loro relazione si nutriva di piccole cose, che agli altri parevano spesso insignificanti. Si aggirarono con un estratto catastale nei dintorni della cittadina, ma senza successo. Per quanto si sforzasse, Erich non riusciva più a ricordare quella villa meravigliosa. Si rammentava però degli anni di scuola e delle lezioni che all’epoca del fascismo si tenevano esclusivamente in lingua italiana. Un aspetto dell’epoca oscura dell’Alto Adige che a una persona aperta e lungimirante come lui ha probabilmente aperto moltissime porte.

Sua madre, una donna garbata e colta, aveva sposato il titolare di un’impresa di trasporti, uomo sanguigno e grande lavoratore. Benché lei leggesse molto, amasse suonare il pianoforte e fare sport – un modo all’epoca decisamente fuori dall’ordinario di occupare il tempo libero per una donna – rimase sempre una persona modesta e una madre premurosa, a suo agio nell’ambiente del marito. Il padre di Erich con i suoi cavalli trasportava materiali per le nuove linee elettriche che dopo la Grande Guerra vennero realizzate in vari luoghi. Quegli animali grandi e forti, fra le altre cose, risalivano la strada verso il Passo del Brennero tirando carri carichi di tralicci di legno. Fu forse per un piccolo gioco del destino che Erich più tardi avrebbe trascorso quasi due estati al Passo del Brennero come pilota di elicottero, compiendo centinaia di voli per trasportare materiali pesanti dove suo padre aveva contribuito a realizzare le linee elettriche. Con quei materiali, portati in alto fra i ripidi pendii del passo, furono realizzate strutture di protezione antivalanghe a protezione dell’autostrada del Brennero su incarico del Genio Civile.

I cavalli, che dopo una lunga giornata venivano riportati nelle stalle, esercitavano un grande fascino su Erich. Suo padre, i cui giorni sembravano non finire mai, poiché dopo il lavoro svolto doveva ancora provvedere alle bestie, permetteva a lui e alle sue sorelle Erna e Trude di accedere alle stalle, dove potevano avvicinarsi agli animali e accarezzarli. Il suo amore per gli animali è durato tutta la vita; se dopo il suo esame di maturità il mondo non fosse precipitato in una nuova guerra mondiale, Erich probabilmente avrebbe scelto di intraprendere gli studi di veterinaria.

Estratto del registro del Catasto di Vipiteno, con cui Carla provò a trovare la casa natale di Erich

Carla mi racconta che un giorno, durante i lavori al Passo del Brennero, Erich fu chiamato in Val di Fleres. Presso una malga d’alta montagna un grosso toro era caduto e si era rotto una zampa. Il proprietario non voleva macellare sul posto il prezioso animale – oltre alla sventura già capitata, questo gli avrebbe procurato anche una perdita economica – ma consegnarlo al macellaio a fondovalle. Sapeva che Erich lavorava al Brennero con l’elicottero. All’epoca non esistevano ancora accessi motorizzati alle malghe e l’idea di trasportare la bestia con l’elicottero era decisamente nuova. Dopo aver parcheggiato il mezzo accanto alla baita in attesa dei preparativi per il trasporto a valle, Erich si avvicinò all’animale adagiato a terra e turbato, iniziò ad accarezzarlo. Il toro avvicinò il muso contro il braccio di Erich come per restituire il gesto e si mise a pizzicarlo dolcemente. Il nuovissimo maglione marca Think Pink di Erich non resse particolarmente bene quella manifestazione d’affetto, mi racconta Carla. “Acqua” disse Erich al malgaro, “ha bisogno d’acqua!” Dopo aver abbeverato l’animale, lo portò in volo a valle, dove già lo attendeva il macellaio. Erich sganciò la rete con cui l’aveva trasportato e, probabilmente senza voltarsi indietro, proseguì in direzione del Brennero.

I genitori di Erich (davanti nella foto) con amici durante una merenda

L’infanzia a Vipiteno fu, a parte le lezioni in italiano, – in casa e con le sorelle Erich parlava dialetto sudtirolese – serena e spensierata.

Nel 1930 la famiglia si trasferì a Bolzano, in via Monte Tondo 5. Lì i nonni gestivano dal 1908 una lavanderia a vapore che in seguitò fu condotta da un fratello della madre, finché non fu rilevata dai genitori di Erich. Lo zio guidava una delle poche auto che si vedevano a Bolzano: una cosa incomprensibile per la madre di Erich, un lusso perfino esagerato, dal momento che si poteva arrivare dappertutto a piedi o in treno. Curiosa ironia, poiché, se allora si fosse potuta spostare in avanti la lancetta del tempo fino all’epoca in cui Erich guidava l’elicottero fra le montagne, che cosa avrebbe detto la madre?

Nella lavanderia a vapore venivano utilizzati macchinari già molto moderni per quei tempi; vi si lavavano capi e tessuti per hotel, ospedali e caserme. Posso facilmente immaginare come in quel tipo di mondo – per poter lavorare con le caldaie a vapore occorreva già allora ottenere una licenza – si sia potuto destare l’interesse di Erich per le cose tecnicamente complesse. Le conoscenze maturate in quel piccolo universo sibilante, sempre caldissimo e non privo di pericoli, si sarebbero rivelate un fattore decisivo per la sua sopravvivenza durante la prigionia in Russia.

Erich amava molto gli animali – qui con il suo cane Susi.

Erich –è seduto nella prima fila in mezzo – frequentò le Scuole elementari a Vipiteno e poi a Bolzano.

La vita in città era per Erich completamente nuova e piena di misteri. Come la maggior parte dei bambini di quel tempo, giocava per strada. All’epoca di traffico non ce n’era, a parte il rumoroso veicolo dello zio, che veniva parcheggiato nel cortile interno. Per il ragazzo interessato alla tecnica quell’auto era un magnete: niente di più ovvio che rendere un servizio allo zio quando era assente e riportare il mezzo polveroso a uno stato di lucentezza. Lo zio poi sorvolava generoso sull’opacità della carrozzeria, apprezzando soprattutto la buona volontà del nipote.

Quando non lucidava l’automobile o andava in bicicletta o giocava a biglie con gli amici, Erich frequentava la vicina scuola primaria “Filippo Neri”. Dal 1923 fu inserito nella prima classe in lingua italiana dell’istituto; lì di anno in anno, per cinque anni consecutivi, le lezioni si tenevano tutte in italiano, con l’eccezione dell’ora di religione. Il dialetto si parlava in casa o con gli amici. La lingua tedesca veniva insegnata nelle cosiddette Katakombenschulen. Come molti altri bambini, anche Erich frequentò queste lezioni domestiche illegali che all’epoca del fascismo erano state escogitate per garantire agli scolari lezioni regolari nella loro madrelingua. Dopo le scuole primarie, Erich passò a frequentare l’istituto commerciale “Cesare Battisti” in via Defregger (oggi via Leonardo Da Vinci) a Bolzano. La vita era ancora facile per il ragazzo, che trascorreva i mesi estivi a San Genesio o a San Costantino, una frazione di Fiè allo Sciliar. Esistevano già allora le vacanze nel maso, i cittadini più abbienti potevano affittare a buon prezzo una camera presso i contadini.

San Genesio si raggiungeva a piedi da via Monte Tondo passando per Castel Rafenstein, un’impresa tutt’altro che ardua per quei tempi. Nei fine settimana venivano in visita i genitori portando dalla città amate leccornie come cioccolata o Zuckerlen1.

Nel 1936 Erich decise di frequentare il liceo “Torricelli” a Merano, poiché a Bolzano non esisteva un liceo scientifico. La “Littorina”2 costituiva un collegamento assai comodo fra le due città, il che permise ad Erich di continuare ad abitare con i genitori. Di tanto in tanto marinava la scuola assieme ad alcuni compagni. Amavano scendere dal treno a Gargazzone per andare a fare sport, una delle cose preferite da Erich, di certo eredità della madre. Nel 1913 quest’ultima e lo zio facevano parte di una squadra di bob a quattro che partecipò al terzo campionato austriaco. A far da tracciato era la strada innevata e spianata che scendeva dal Passo di Monte Giovo. La coppa vinta allora dai parenti fa bella mostra ancora oggi in casa di Erich e Carla.

A volte si facevano anche delle grigliate e i giovani studenti si trastullavano tutto il giorno in un dolce far niente. Erich viveva un’esistenza decisamente spensierata, senza mai passare il limite. Tuttavia il futuro, che presto avrebbe trasformato in un inferno quella vita piacevole, aspettava dietro l’angolo.

Le cosiddette opzioni del 19393 cui furono costretti i sudtirolesi di lingua tedesca e i ladini portarono la grande svolta nella vita di Erich. La famiglia doveva decidere se lasciare l’Alto Adige per trasferirsi nel Reich o rimanere nella propria terra, dove tuttavia si sarebbe esposta a una completa italianizzazione. Fu una decisione ardua per la famiglia Abram come per tutti gli altri sudtirolesi. In via preventiva Erich fu mandato in un convitto francescano a Hall in Tirol per ultimare lì gli studi. Il professore di storia e geografia era un giovane atletico che prima delle lezioni andava a correre con i suoi studenti. Niente di meglio per Erich, che era diventato un ragazzo sportivo e nel frattempo aveva anche scoperto l’alpinismo. A Hall conobbe Hermann Buhl,4 di due anni più giovane di lui, che in seguito sarebbe entrato nella storia dell’alpinismo per la sua scalata in solitaria e senza ossigeno del Nanga Parbat.

In quel periodo Erich si comprò una macchina fotografica, una Kodak Retina, probabilmente del tipo 117. Era la prima fotocamera che poteva essere caricata senza grande sforzo con una pellicola di piccolo formato e che portò dunque un mutamento decisivo nella fotografia. Fotografare rimase sempre la grande passione di Erich. Numerosi scatti in bianco e nero rivelano anche il suo talento per lo scatto, la sua capacità di cogliere il momento giusto.

Erich rimase fedele al suo hobby per la fotografi a fino in tarda età.

La Kodak Retina 117 era molto popolare ai tempi della gioventù di Erich.

Nel 1941, poco dopo l’esame di maturità, venne la prima grande svolta nella vita del giovane Abram. Fu arruolato dai tedeschi e assegnato all’arma sottomarina ad Amburgo. Se fosse rimasto lì, oggi probabilmente non potrei scrivere di lui. I sottomarini furono presto chiamati “tombe di ferro”. Nelle missioni sottomarine l’entità delle perdite era più alta che in ogni altro ambito militare durante la Seconda Guerra Mondiale. La durezza dell’addestramento di base sorprese la giovane recluta, spesso i superiori gli urlavano contro, un sottoufficiale spalancava di continuo gli armadietti e gettava a terra tutto ciò che c’era dentro. Il sudtirolese venne chiamato Beutedeutsche, annoverato cioè nel “bottino” delle annessioni, uno al quale ancora per molto si sarebbero tirate per bene le orecchie. Ricordando quei giorni, Erich commentava: “L’allenamento spietato e il terrore psicologico in certo qual modo mi resero più forte. Credo che grazie a ciò fui in grado di superare tutto quel che venne dopo.”

Poiché già allora Erich aveva una solida esperienza alpinistica e possedeva una grande scioltezza nel parlare, riuscì a convincere i superiori che sarebbe stato utilizzato meglio nelle truppe da montagna.5 Fu assegnato alla Klosterkaserne di Innsbruck. Qui trascorse un ultimo, splendido inverno senza guerra nelle Alpi dello Stubai, dove i soldati sciavano con l’arma in spalla o trainavano cannoni in montagna. Finito l’addestramento, nella primavera del 1942, i Gebirgsjäger furono trasferiti dapprima in treno nella penisola di Crimea, sul mare di Azov. Successivamente furono trasportati nel Caucaso via nave, quindi in pullman e infine a piedi. Durante gli anni di guerra Erich avrebbe percorso circa 16.000 chilometri a piedi, la maggior parte dei quali con gli stessi scarponi da montagna, come avrebbe spesso sottolineato negli anni successivi. Commentava laconico: “Tutto quel camminare presto smettemmo di sentirlo. Che dovessimo marciare per un giorno o per una settimana in montagna, non faceva differenza.” I primi fra questi chilometri, e non pochi, condussero il giovane Abram fino al Passo Marukha,6 a 2742 metri d’altitudine, che allora era in mano ai Russi.

Nel corso delle mie ricerche inizialmente non riuscivo a trovare questo Passo Marukha. Erich ne raccontava spesso, ma lo chiamava erroneamente “Passo Maruschkoje”. Carla è venuta in mio aiuto una volta di più trovando il nome corretto in un appunto di un amico di quell’epoca. Il passo si trova in un luogo abbandonato da Dio, nel Gran Caucaso, nel bel mezzo di un paesaggio montuoso infinito, incorniciato da ghiacciai. Le sue coordinate sono 43° 22’ N, 41° 23’ O. La strada più vicina si trova a più di venti chilometri in linea d’aria. Erich aveva vent’anni quando prese d’assalto il passo con i Gebirgsjäger e conobbe d’improvviso la terribile verità della guerra. Molti commiltoni con i quali aveva trascorso il periodo dell’addestramento e le ore spensierate nelle Alpi dello Stubai, caddero durante la presa del valico. Fu una battaglia uomo contro uomo in un paesaggio roccioso frastagliato e difficile. Negli anni successivi Erich avrebbe raccontato spesso della guerra; in qualche modo fu in grado di accogliere senza compromessi quel periodo nella propria esistenza.

Erich durante l’addestramento come Gebirgsjäger – molto probabilmente un corso di arrampicata nel Wilder Kaiser con moderne scarpette da arrampicata

Accampamento dei Gebirgsjäger al Passo Marukha nel Grande Caucaso