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Michil Costa

FuTurismo

un accorato appello contro la monocultura turistica

Prefazione di Massimo Cacciari

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Indice

Prefazione di Massimo Cacciari

Introduzione

Il turismo porno-alpino

Il viaggio, tra accoglienza e ospitalità

L’incontro

Xenia

Il turismo, l’industrializzazione del viaggio

Dolomieu

Il fronte dolomitico

L’innevamento programmato

Il turismo in Alto Adige Südtirol: dati

Autoctonomia

I ladini delle Dolomiti

Posti letto

Schiavitù

Modelli

La musica, una legge morale

Tra vini, sculture e caffè

Il futuro dell’ospitalità

I turisti, comportamenti umani e tipologie di umanoidi

Gli alunni del Sole non ci sono più

I turisti che offendono

Le cose di casa, attività, idee, progetti di ieri, oggi e domani

La Maratona dles Dolomites

La Costa Family Foundation

I collaboratori

L’Economia del Bene Comune

This is the end, beautiful friend, alla fine di un lungo viaggio, tutto ricomincia

Ringraziamenti

Riferimenti bibliografici

Crediti fotografici

Prefazione

Il libro di Michil è una lunga, appassionante gita attraverso la storia delle sue montagne, gli incontri che ha vissuto, le voci che ha ascoltato vivendone le metamorfosi. È una storia drammatica, come tutte quelle davvero autentiche. Nulla di sentimentalistico o idillico. E nulla di oziosamente nostalgico.

Tutto ciò che vive obbedisce anche all’ordine del tempo. Vi è una dimensione della vita che vi si sottrae? Michil, è evidente, lo crede, ma non lo sa e con grande pudore non ne parla. Dunque, ciò che sappiamo è che montagne, boschi, torrenti si consumano come gli uomini che vi con-vivono. Consumarsi non significa finire nel nulla, ma, appunto, trasformarsi. Il problema è riuscire a dare a tale incessante trasformazione un senso, un fine, un orizzonte. Questo cerca Michil col suo libro, che è il racconto della sua esperienza, Er-fahrung, del suo viaggio: indicare, senza alcuna presunzione “magistrale”, quale senso possa assumere oggi l’inevitabile trasformazione della montagna, della importante struttura economica che in essa ha preso forma, delle attività umane che la caratterizzano.

Michil è un innamorato imprenditore. Questo mi piace: tanto ama il suo Mutterland (patria è sempre in fondo matria), quanto mai dimentica che in esso opera, lavora, e lavorare si deve anche con profitto per sé e per gli altri. Sono necessari imprenditori intelligenti – Michil lo è ed esige che tutti imparino a esserlo. Il patrimonio va valorizzato, non dissipato. E il patrimonio è essenzialmente ambiente, paesaggio, bellezza. Rovinarli, distruggerli significa distruggersi. E i tempi possono essere ormai rapidissimi proprio in forza della straordinaria rapidità della crescita: territori che erano rimasti sostanzialmente identici per secoli e secoli fino a cinquant’anni fa, oggi sono minacciati da una trasformazione che spesso appare una violenta negazione della realtà precedente. Michil ci mostra come ciò non sia affatto un destino, come si possa resistere a queste tendenze, e lo mostra discutendo progetti concreti, non astratte utopie. La sua è una ecologia propositiva e realistica, quella di cui il nostro mondo ha davvero bisogno.

L’imprenditore intelligente oggi non soltanto sa che deve essere il primo a difendere l’ecosistema in cui opera, ma anche che la sua impresa ha carattere sociale più ampio. Che lo voglia o no, l’impresa ha oggi questo carattere. Al negativo: quando, centrata su sé stessa e il proprio interesse “a breve”, cerca di trarre dall’“ambiente” ogni risorsa possibile e non si cura dell’“energia” che in esso rimette. Al positivo: quando si organizza in modo tale da considerare tutti gli interessi che nel contesto in cui opera sono presenti e tutti questi vuole, per quanto possibile, soddisfare.

Massimo Cacciari

filosofo, professore emerito di Estetica presso l’Università di Venezia, ex sindaco di Venezia

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Introduzione

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Ernesto Costa – padre di Michil Costa

Entrai a far parte dell’azienda di famiglia, l’Hotel La Perla di Corvara, all’inizio degli anni ottanta. All’epoca nessuno si preoccupava del concetto di ospitalità, dei valori della nostra professione e nemmeno del marketing. Ci si limitava a lavorare come si era sempre fatto, tirandosi su le maniche, non lesinando l’impegno. La presenza in albergo dei miei genitori era costante: Anni ed Ernesto hanno l’ospitalità nel sangue. Nel percorso alla scoperta di questo mestiere, l’insegnamento più importante è stato il loro fulgido esempio. Per capire il significato del termine ospitalità, mi è bastato provare a emularli. Ma i tempi cambiano e le decadi scorrono e oggi ci troviamo di fronte a un bivio preciso, dobbiamo compiere una scelta di campo netta e distinta di fronte al moloch turismo che incombe su di noi. Le pagine che seguono vogliono essere da un lato considerazioni contro la monocultura turistica, espresse in base non solo alle mie esperienze personali, e dall’altro uno stimolo alla riflessione per capire quale passo fare, del resto siamo gente di montagna, verso una cima che non può essere fatta solo di consumo esasperato del territorio, di scelte urbanistiche spregiudicate, di obiettivi legati al dio profitto.

Il turismo in Val Badia nacque all’inizio degli anni cinquanta. La popolazione viveva sostanzialmente di agricoltura e questa nuova attività rappresentava la grande opportunità per uno sviluppo economico che avrebbe potuto rendere più facile la vita di ogni giorno. Non c’erano esempi professionali ai quali rifarsi, né istituti alberghieri da frequentare, men che meno concetti – quali, appunto, l’ospitalità – verso cui orientare la propria attività. Si lavorava semplicemente di buona lena per accogliere gli ospiti nel miglior modo possibile. Si procedeva un po’ per tentativi, sulla base dei propri valori culturali personali: il rispetto, la gentilezza, l’umiltà. Dopo il boom economico, negli anni settanta fu l’avvento del turismo invernale a costituire la svolta, portando lo sviluppo economico e urbanistico in tutta la vallata. Il turismo diventa così gran parte della nostra vita. Per tale ragione ho inserito fra le varie considerazioni sul tema alcune esperienze autobiografiche che contribuiscono a rendere più chiaro, ai miei occhi, il mondo dell’ospitalità nel suo insieme.

Oggi, giunti all’apice di questo sviluppo, siamo di fronte a un paradosso: l’estrema ottimizzazione delle strutture ricettive ha portato all’industrializzazione del settore turistico, tanto che più di qualcuno, anche tra gli operatori, avverte la necessità di dare un senso più profondo a questo mestiere. Io stesso, figlio di due pionieri del turismo dolomitico, fratello maggiore di due uomini meravigliosi, Mathias e Maximilian, entrambi fondamentali per lo sviluppo dell’azienda, dopo aver vissuto in prima persona l’evoluzione del settore dell’ospitalità dalla fase eroica degli anni settanta e ottanta a oggi, dovrei essere fiero dei risultati che abbiamo conseguito grazie al duro lavoro, in una valle remota come la nostra. Invece, quando sento parlare di industria turistica, di soverchiante monocultura, mi si stringe lo stomaco. Non vorrei essere frainteso: se condotta nella giusta maniera, come ogni altra cosa, l’industrializzazione del turismo porta ottimi risultati, soprattutto dal punto di vista economico. Ma la domanda che all’epoca della nascita del turismo nelle nostre vallate non avemmo il tempo di porci, rimane ancora senza una risposta: che senso vogliamo dare alla nostra ospitalità? Puntiamo su un’industria turistica volta a una continua massimizzazione del profitto? Oppure aspiriamo a un’accoglienza d’eccellenza che si fondi su valori più profondi quali la solidarietà, il bene comune, la sostenibilità ambientale, la Menschlichkeit, ovvero l’umanità? È facile capire quale potrà essere la risposta dei più. Se invece approfondissimo la questione, capiremmo che dalla crisi dell’identità turistica nella quale ci siamo cacciati, potremo uscire solo se troveremo un’armonia tra le due aspirazioni e con essa la sintonia tra l’essere umano e l’ambiente che lo circonda. Solo se riusciremo a dare un senso alle prospettive future e ragioneremo in termini di bene comune, possiamo dare una concreta alternativa al dilagare del turismo porno-alpino che non solo sta logorando il magnifico territorio che madre natura ci ha donato, ma anche minando la nostra identità. Dobbiamo farlo, è nell’interesse di tutti.

Il turismo porno-alpino

La natura come capitale, il profitto come unico scopo aziendale, la monocultura turistica al posto della cultura dell’ospitalità, la turistificazione di massa al posto della convivenza: questo, in sintesi, è ciò che intendo con turismo porno-alpino, una forma di mercificazione, una dimensione che si perpetua in un falso immaginario, priva di sensualità e di sentimento. Una rappresentazione oscena che si manifesta da anni attraverso pratiche che hanno nel cemento e nella speculazione i fattori più subdolamente mascolini e nella natura il soggetto sottomesso al più indecente meretricio. Non c’è afflato moralistico in questa definizione del modo di fare turismo che ormai si è diffuso ben oltre le montagne, piuttosto una semplice constatazione: la trivialità del turismo attuale sancisce la fine del turismo stesso. Per questo parlo di FuTurismo, nella convinzione che il turismo del futuro possa avere nuova vita e uscire dal postribolo in cui si è cacciato solo se entra in una dimensione altra che sappia rivalutare appieno il concetto di ospitalità.

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Anni Costa con i figli Mathias e Michil

A un certo punto della storia dello sviluppo turistico nelle Alpi, negli anni caratterizzati dal post boom turistico, siamo quindi nei primi anni ottanta, si è iniziato a perdere la consapevolezza legata all’ospitalità che man mano è andata scivolando verso una messa in scena artificiale della cultura alpina. Un mito quasi fiabesco, quello di Heidi che vive tra i monti, una certa nostalgia di tempi forse mai esistiti, di una vita alpina fatta di baite di legno, di cuoricini, di dirndl, di strudel, di musichetta leggera, di stufe calde e di una spensieratezza al limite dell’ipocrisia più becera. Questa coulisse pseudo alpina si è insinuata nel paesaggio turistico montano, rendendolo a tratti disneyano, senza ritegno e senza rispetto per la vera cultura autoctona, la storia, le tradizioni, le quali sono state tramutate sempre di più in concetti di marketing, pur sempre di grande successo. Il messaggio rivolto alla massa era ed è tuttora: “Auf der Olm do gib’s koa Sünd” (lassù sulle Alpi non vi è peccato).

Parlo di un turismo porno-alpino perché questo tipo di turismo è una pratica al limite del buon senso, sembra forte ed eroico, in qualche modo sovrumano, invece è sfigurato, insensato, volto a creare eccitazione e soddisfare piaceri feticci. Il turismo porno-alpino ha banalizzato quella sacralità che la montagna ha avuto per secoli nella cultura autoctona, ha invaso confini mentali e territoriali, conquistando le vette, rendendole agibili alla massa, rendendole un semplice e banale prodotto di consumo.

Nel supermercato dell’umanità la condizione transitoria del paesaggio viene fissata come paesaggio originario atemporale. Ogni generazione crea così il suo proprio passato, apparentemente senza tempo, e nel farlo distrugge il passato dei padri, per dirlo con le parole di Lucius Burckhardt. Ciò che contesto è quindi l’abuso, il modo distorto e falso di fare turismo attraverso lo scempio quotidiano che esercitiamo nei confronti della natura, senza capire che è nella natura che troviamo la nostra redenzione.

Contrappongo al concetto del turismo porno-alpino che violenta la natura, il concetto della cultura dell’ospitalità, il nucleo pulsante della mia concezione di FuTurismo. La grande differenza sta nel modo di porsi, nel modo di concepire l’ospitalità: il vero a fronte del falso, la sincerità a fronte della pura messa in scena, la persona a fronte dell’industria turistica, il rispetto a fronte dell’effimera euforia, l’autenticità a fronte della finzione. Nel porno-turismo domina il catalogare le persone alla stregua di un buon affare. Nella cultura dell’ospitalità alberga un’idea di natura non straziata e snaturata, bensì ispiratrice nella consapevolezza che il depauperamento ecologico coincida con l’impoverimento del nostro essere umani.

Le pagine che seguono sono il frutto di esperienze vissute in prima persona in quanto albergatore figlio di albergatori. Ci sono frammenti di vita privata mischiati alla vita reale, ci sono emozioni che si fanno considerazioni, c’è l’andare del tempo che, giorno dopo giorno, assume la forma di una montagna in cui è bello salire in punta di piedi.

Nota: ho voluto ricorrere spesso a citazioni, fra le quali trovano soprattutto spazio i classici e i greci, sia per il fatto che la cultura ellenica mi affascina, sia perché trovo che tuttora sappia legare insieme epoche e società diverse e successive. Sono i classici che ci aiutano a capire, a comprendere e a sapere di più su noi stessi, è la conoscenza che ci aiuta a mantenere vivo e continuo un filo rosso, il quale lega l’umanità, tutta l’umanità. Conoscere il presente attraverso il passato è un modo per riflettere e ripensare a quello che è stato e a quel che potrà essere il nostro futuro e il nostro FuTurismo.

Il viaggio

tra accoglienza e ospitalità

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E tutto vidi nella creazione di Dio

Ma ad ogni cosa che esiste

A tutto quel che accade sotto il sole

Un senso l’uomo non riesce a dare

Lì sopra gli uomini si affaticano

Senza poter trovare

E il sapiente che dice di sapere

Neppure lui ha trovato

Qohélet

L’incontro

comunità, cultura, ambiente

C’era una volta una montagna. Gelidi venti, bianche pernici, azzurri ghiacci d’inverno, affascinanti raperonzoli e pelose stelle alpine d’estate in perfetta simbiosi. I camosci risalivano le gole cercando primizie primaverili, in autunno indaffarate marmotte racimolavano cibo per i mesi successivi. Una montagna né bella né brutta: semplicemente era lì, da migliaia di anni. Arrivarono i primi esseri umani, avanzando curvi ma su due gambe. Si coprivano con pelli di animali, avevano frecce e rudimentali coltelli di pietra sempre a portata di mano. L’ambiente era ostile, i pericoli in agguato. Videro quel monte, davanti a esso si prostrarono. Per millenni continuarono ad ammirarlo dal basso, non osando profanare la vetta. Era bello il monte, magnifico, lucente, maestoso, ma al contempo incuteva loro paura, soggezione, come tutto ciò che è sacro. Fu solo il primo incontro tra gli esseri umani e la montagna. Di lì a qualche secolo arrivarono esploratori, scienziati, geologi. Quei canaloni, un tempo esclusivo appannaggio di capre e stambecchi, vennero battuti da gente che arrivava da lontano. Al desiderio della scoperta subentrò quello dell’occupazione, della proprietà. Gli umani utilizzarono mine e dinamite, l’incontro divenne scontro. Su quella montagna cominciarono uccidendo gli animali, poi arrivarono ad ammazzarsi tra loro. Infine fecero la pace, si riunirono, dialogarono. E insieme andarono alla conquista di altri luoghi che all’inizio sembravano inaccessibili. Solcarono i mari, si addentrarono nelle viscere della terra. La loro sete di conquista non si arrestò, sbarcarono addirittura sulla luna.

Ogni volta che l’essere umano si è incontrato con l’altro, poteva scegliere tra tre opzioni: darsi la clava in testa, isolarsi come una bestia timorosa o parlarsi. Dialogare e capirsi, appunto, per conquistare insieme, e la conquista inizia sempre con un viaggio. Tutta la nostra storia ruota intorno al viaggio, il viaggio è il senso dell’umanità. Il viaggio più famoso è senz’altro quello di Odisseo. L’eroe dell’astuzia si distingue dagli altri eroi: non ama combattere in duello, preferisce l’imboscata; incarna il simbolo dell’uomo che riesce a superare le prove della vita con la forza dell’ingegno versatile e curioso. I suoi continui inganni provocano l’ira degli dèi e degli uomini. Duramente punito, è infatti costretto a peregrinare per tutti i mari. Supera innumerevoli e terribili prove prima di poter tornare in patria a Itaca. Odisseo è l’eroe dai molti volti: Omero lo elogia, la letteratura e l’immaginario successivi lo condannano, diventa simbolo dell’inganno e della violenza, del cinismo e della perfidia. Così, nel teatro dell’Atene classica, Odisseo è spesso protagonista di episodi negativi; una figura che simboleggia l’ardire dell’uomo che non rispetta i valori tradizionali. L’Ulisse dantesco, dannato nell’inferno, rappresenta il simbolo di ciò che l’uomo osa contro i limiti fissati da Dio, ma al tempo stesso incarna anche il fascino irresistibile della sete di conoscenza. Sarà il Romanticismo a dare valore a Ulisse, scorgendo in lui uno dei tanti eroi che guerreggiano con il loro destino. Nel Novecento lo scrittore irlandese James Joyce, nel suo Ulysses, indica nella figura del mito greco il lontano archetipo dei vagabondaggi e delle sofferenze quotidiane dell’uomo contemporaneo. La temerarietà e l’eroismo nel varcare la sfera di quanto allora era conosciuto sono gli elementi che accompagnano il suo vagare – viaggiare – senza fine. Perché quando il viaggio inizia, trasforma, rende “altri”, proiettando chi viaggia nell’altrove. È come se la vera meta non fosse visitare un luogo sconosciuto, bensì imparare a vedere oltre, dentro di sé. Odisseo è la figura del viaggiatore antico, coraggioso. Attraverso il viaggio non cerca solo libertà, brama di conoscenza, un sapere che lo conduce nel tempo a una consapevolezza che può sembrare paradossale, ma fino a un certo punto: tornare da dove si è partiti, ritrovare casa. Scrive Magris: “Viaggiare sentendosi sempre, nello stesso momento, nell’ignoto e a casa, e sapendo di non avere, di non possedere una casa. Chi viaggia è sempre un randagio, uno straniero, un ospite”. Si torna, ma si torna sempre in un luogo diverso, anche quando i luoghi sembrano gli stessi. Il viaggio permette di liberarci delle costrizioni, delle abitudini. Un desiderio atavico e recondito permea l’individuo: quello del conoscere, conoscere l’altro per conoscere sé stesso. Per viaggiare tanto in profondità ci vuole un viaggio saggio, lento, denso di consapevolezza. Un ritorno in noi, il “Nostos”, in greco. Quel che origina la parola nostalgia, quindi mancanza, dolore, è assieme desiderio di conoscenza e dolore per il distacco dalle cose a noi care, istinto ancestrale insito nell’essere umano, da sempre la quintessenza del nostro viaggiare. Al giorno d’oggi molti tentano di alleggerire la fatica del viaggio con comfort sempre più sofisticati ma al contempo anestetizzanti. Alla fine cosa rimane della nostra esperienza? L’aver visto, forse, ma non l’aver viaggiato. Del resto, l’uomo non è nato per andare piano. È nato per correre. Il “lentius, profundius, suavius” spesso evocato dal compianto Alexander Langer in contrapposizione al “citius, altius, fortius” dal quale ebbero origine le prime Olimpiadi, rimane un ottimo proposito. Langer predicava la lentezza, rispetto all’ipertrofia compulsiva che ha caratterizzato la nostra storia recente. All’inizio del secolo scorso, quando si pensava che velocità, tecnologia e scienza potessero risolvere i problemi del mondo, abbiamo avuto uno tra gli esempi più eloquenti di come la grande corsa verso il progresso si sarebbe potuta bruscamente arrestare. Tra le onde dell’Oceano Atlantico, nell’aprile del 1912, il transatlantico più sfarzoso di sempre, il Titanic, affondò e con esso s’infranse anche il sogno della Belle Époque per troppo edonismo, troppa rivoluzione industriale, troppe incomprensioni. Si frantumò per eccesso di velocità. La Bella Epoca, con le sue esagerazioni, avrebbe finito per scatenare la catastrofe delle catastrofi: la guerra che avrebbe dovuto porre fine a tutte le guerre si tramutò in un conflitto lungo trent’anni, interrotto da una tregua frutto di una pace solo in parte condivisa. Il viaggio del Titanic, carico di speranze nelle nuove tecnologie, portò l’umanità in tutt’altra direzione.

Il viaggio può essere progresso solo se ci avvicina al prossimo, a un mondo migliore, senza catene, più leggero, libero dai pesi e dalle pastoie che lo fossilizzano. E il nostro viaggio, da fortunati abitanti di questo meraviglioso pianeta, dove ci porterà? Proveremo a parlarne in queste pagine proprio nel momento in cui il turista inconsapevole, esemplare umano che si riproduce in modo seriale su vastissima scala, è concentrato su esperienze prettamente ludiche, con l’unica finalità di riempire il tempo a disposizione. Il viaggiatore consapevole invece, colui che sente, annusa, vede, viaggia per svuotarsi e in questa opera di alleggerimento va incontro al nuovo, allo sconosciuto. Il suo è un tentativo di lasciarsi alle spalle ciò che è conosciuto, un andare per andare. Oggi il turismo, e quindi anche fare turismo, è una sorta di sottoprodotto culturale che strumentalizza la circolazione umana per ridurla a consumo. Si basa su una formula: offrire e ricevere, diventata banale in virtù di uno scambio sempre più stereotipato, duplicato, omologato. Riassume bene il concetto Francesco Guccini descrivendo la città dei Dogi: “Venezia che muore, Venezia appoggiata sul mare, la dolce ossessione degli ultimi suoi giorni tristi Venezia, la vende ai turisti”.

Omar Khayyam, matematico, filosofo e poeta persiano, sosteneva che viaggiare è vivere due volte. Apre la mente, può renderci persone migliori, permette di conoscere e apprezzare culture e tradizioni differenti. È una scoperta, e ogni nuova esperienza produce un accrescimento interiore. Il viaggio comporta l’abbandono delle proprie certezze, l’allontanamento dal tran tran quotidiano, la rinuncia alle proprie abitudini, il tentativo di esprimersi in un’altra lingua, la volontà di accrescere le proprie conoscenze.

Quando si parla di turismo – dal francese “tourner”, andare in giro, termine che molto spesso ha sostituito “il viaggio” – mi piacerebbe che ci fosse un pensiero comune declinato in prima persona: cosa posso fare, io albergatore, per te contadino che vivi nella mia stessa comunità? E cosa posso fare per te pescivendolo che affronti le tortuose strade di montagna partendo alle quattro del mattino da Chioggia per portarci il pesce fresco in giornata? E per te cameriera dei piani bosniaca che lasci la famiglia per affrontare una lunga e impegnativa stagione turistica? E per te ragazzo nigeriano che sei da anni in Italia e devi accettare i posti di lavoro più umili e ancora non hai il permesso di soggiorno che ancora troppo spesso ti rifiutiamo temendo che tu possa danneggiare i nostri interessi economici? E cosa posso fare per te turista americano, cinese, russo? Un incontro senza finzione, l’incontro vero, quello che accade quando la vita decide di farti un regalo, che diventa l’occasione per una comprensione reciproca, oltre l’appartenenza culturale, la religione, la provenienza, gli usi e costumi. Se non partiamo da questo presupposto non riusciremo mai a dare un valore altro al turismo, a riconciliare il turista con il viaggiatore. Il viaggio come dimensione pacificante, che può lenire le ferite che la vita ci infligge. Il turismo deve riappropriarsi di un concetto basilare, che vada oltre i cliché standardizzati, oltre le formulette del marketing di convenienza. Il noi e gli altri non sono parti distinte allo stato puro e isolate, ma possono convivere influendo l’una sull’altra, dando a tutti l’opportunità di farsi persone più complete. Soprattutto i territori che ospitano piccole comunità, come quella dove vivo, in mezzo alle Dolomiti, possono e devono salvaguardare la diversità che passa attraverso la ri-conoscenza delle diversità stesse. La strada per arrivarci è lunga, faticosa e per raggiungere questo obiettivo non serve solo entusiasmo, ci vogliono coraggio, conoscenza, umiltà. E rispetto.

È necessario incontrarsi per accorciare le distanze, per accogliere. L’accoglienza ha una stretta attinenza con la lettura, infatti deriva dal verbo latino “lègere”, mettere insieme. Scrive Maurizio Maggiani: “Leggere è come legare, la radice è la stessa, sumerico leg, raccogliere. Leggere è come una legge, stessa radice e stessa ragione, raccogliere e legare. Leggere è stabilire un legame. Leggere è un atto della creatività ordinatrice, è quasi un miracolo saper leggere, al confronto scrivere è roba da niente”. Ridurre le resistenze approcciandosi sullo stesso piano di chi ci sta davanti. Altra cosa è l’ospitalità, un esercizio di democrazia. La democrazia non richiede un’uguaglianza perfetta, ma pretende che gli uomini e le donne di estrazione diversa si incontrino e convivano. Si può essere ospitali, ma non davvero accoglienti e si può essere accoglienti pur non offrendo un luogo davvero ospitale. A tal proposito ho chiesto un parere a Erri De Luca: “Si è ospiti senza invito sulla faccia antica della terra. Tra le montagne, le Dolomiti che ho imparato a salire, è più profondo il senso di essere un forestiero di passaggio che ha da lasciare il posto senza nessuna traccia”.