_Stamane il mio Editore è venuto da me.
—Ebbene! gli Ho chiesto, come è andato lo smercio dei nostri volumetti?
—A meraviglia! in meno di tre mesi, Duemila esemplari del __Libro proibito__.
—Ciò si capisce.
—Mille e cinquecento del __Libro allegro__.
—Anche questo si capisce._
—Stampiamo dunque il __Libro serio__?
—Fate pure; ma vi prometto che al termine dell'anno non ne avrete vendute __Cento Copie__.
—Ella crede?
—Son pronto a scommettere.
—Scommettiamo!
—Perdereste.
—Ma, perchè?
—Perchè il mondo è tutto pieno di gente onesta, che va in cerca di libri proibiti e di gente seria, che va in cerca di libri allegri; ma un libro serio non è cercato nè dalle persone oneste, nè dalle persone serie, nè dalle persone allegre.
L'Editore volle fare a modo suo, e tanto peggio per lui._
Nel giugno dell'anno 1873, una nobile, simpaticissima figura di artista scomparve dal mondo colla morte di Angelo Mariani. Oltrechè distintissimo suonatore di violino e compositore elettissimo di pezzi da camera, Angelo Mariani fu a' suoi tempi il più eccellente direttore d'orchestra, il più sapiente e vigoroso interprete delle opere italiane e straniere.
Sotto questo aspetto, Angelo Mariani meritò, primissimo in Italia, il titolo di creatore. E tale volle essere chiamato per quella sua maravigliosa potenza di intuizione onde a lui rivelavansi i caratteri speciali di ciascuna musica, per quella pellegrina facoltà di assimilarsi lo stile dei singoli compositori e di tradurne le bellezze, senza distinzioni o predilezioni, col gusto elevato dell'artista di genio, colla coscienza dell'uomo leale, coll'entusiasmo dell'italiano.
Angelo Mariani nacque a Ravenna il giorno 11 ottobre 1824. Affidato all'età di 11 anni all'esimio Pietro Casalini che in quel tempo era professore di violino all'Accademia filarmonica, perfezionato dippoi nei segreti del difficile istrumento dal professore Giovanni Nostini, a quindici anni il Mariani dava concerti in Ravenna sua patria e in altre città delle Romagne, destando da per tutto la maraviglia co' suoi precoci talenti.
L'ottimo signor conte don Gerolamo Roberti di Ancona, che allora dimorava a Ravenna presso l'amico suo cardinale Falconieri, prese a proteggere il giovane concertista, iniziandolo ai segreti dell'armonia, nella quale era versatissimo. Il Mariani ricordava spesso con riconoscenza ed affetto le pazienti cure prodigategli da quel dotto contrappuntista, dal quale egli aveva appreso l'amore ai buoni studi ed alle severe discipline dell'arte. E con pari benevolenza e rispetto il Mariani parlava sovente del padre Levrini da Rimini, allievo del famoso padre Mattei di Bologna, dalle cui lezioni egli trasse il maggior profitto.
A diciannove anni, il Mariani fu chiamato a dirigere una banda musicale a Sant'Agata Feltria, e quivi si diede a far degli allievi in ogni genere di istrumenti. A quell'epoca, il giovane maestro non conosceva che il violino ed il pianoforte; ma pure, nel breve giro di pochi mesi, egli riuscì a trattare perfettamente la più parte degli istrumenti da fiato, e fra questi la tromba, il trombone, il bombardino, il flauto ed il clarino, ch'egli qualche volta si prendeva il diletto di suonare, con grande meraviglia di chi lo udiva. Quegli studii e quegli esempi preparavano il grande artista, l'insuperabile direttore di orchestra predestinato a brillare fra le più elette illustrazioni del teatro italiano. A dimostrare come l'arte fosse incoraggiata a quei tempi e per quali strettezze anche il Mariani abbia dovuto passare ne' suoi anni giovanissimi, basterà avvertire che lo stipendio percepito da lui per la direzione della banda di Sant'Agata era di lire 50 mensili.
Recatosi a Macerata nel 1843 per suonare la prima viola al teatro dell'opera, quivi, nel corso della stagione, fece eseguire due sinfonie ed un grande concerto a tutta orchestra obbligato a sei istrumenti; delle quali composizioni, che ottennero il massimo effetto, si parla con molta lode in un articolo pubblicato allora dal Messaggere Bolognese, dove sono ricordate altre composizioni dello stesso Mariani, già eseguite precedentemente a Ravenna.
Nessun paese è più reazionario dell'Italia, sotto l'aspetto dell'opposizione che qui incontrano i giovani talenti—Non si ha fede nei giovani—non si ammette l'intelligenza, se questa non abbia acquistato autorità dai capelli canuti e dalle rughe del volto. Non si vuol tener conto di questa verità fisiologica, che il giovine di vent'anni entra nel mondo colle idee nuove della sua epoca, informato di tutti quei progressi che gli adulti non sono più in grado di assimilarsi, dacchè il loro spirito si è in certo modo ossidato nei pregiudizi di altri tempi. Non è qui il luogo dove ci sia permesso di sviluppare ampiamente questo tema, e di mostrare i danni che derivano all'Italia da questa sua eccessiva venerazione per gli uomini del passato, da questa diffidenza gelosa dei giovani ingegni.
Anche il Mariani ebbe a lottare per alcun tempo contro tale pregiudizio; senza di che, all'età di 17 anni, egli avrebbe preso il posto di direttore in una delle principali orchestre dell'Italia, e tosto il di lui nome sarebbe stato inscritto fra quelli dei più valenti.
Pel Mariani la lotta non fu però così lunga e crudele come per la più parte dei giovani. Il di lui talento imponeva simpatia e rispetto anche ai più anziani maestri; le gelosie e le cabale dei mediocri non ebbero forza di contrastargli lungamente il posto meritato.
Il celebre baritono Tamburini avea istituito in Faenza, sua patria, una Società Filarmonica, dove tosto si era adunata una eletta schiera di giovani intelligenti e volonterosi per addestrarsi agli esercizi della musica istrumentale. Il posto di maestro e direttore di quella giovane orchestra venne affidato al Mariani, il quale diede allora tali saggi di intelligenza e di coltura musicale, da ottenere le testimonianze più lusinghiere di stima dai suoi giovani alunni. Fu in Faenza, in mezzo alle cure della nuova Società Filarmonica, che il giovane maestro diè vita a non poche composizioni, per le quali fu sommamente lodato anche dai più illustri cultori dell'arte.
Ecco una lettera molto lusinghiera, che il Rossini dirigeva in quell'epoca al Mariani:
«Pregiatissimo sig. Mariani,
«Ho fatto far copia della di lei Sinfonia in sol minore per eseguirla nei prossimi esercizi od accademie di questo liceo.
«Il suo lavoro è rimarchevole considerandolo specialmente come lavoro di un esordiente. Bello è il piano, logica la condotta e felicissimi i pensieri. Di questa sua bella composizione voglia aggradire i rallegramenti di chi si pregia di dirsi
«Suo devotissimo servo
«GIOVACCHINO ROSSINI»
«Bologna, il 16 agosto 1844.»
Incoraggiato dalla ammirazione pubblica e dalle felicitazioni dei più insigni maestri dell'arte, il Mariani lasciò presto il suo impiego di direttore d'orchestra della Società Filarmonica di Faenza, e trasferitosi a Bologna, quivi d'altro non volle occuparsi per alcun tempo che dello studio dei classici. Rossini lo colmava di gentilezze, lo incoraggiava coi più lieti pronostici—il vecchio maestro Marchesi gli dava lezioni di perfezionamento nella difficile scienza delle armonie.
Nell'autunno e carnevale del 1844-45, chiamato a Messina per concertare le opere e dirigere l'orchestra di quel teatro, Mariani dovette cedere alla forza del pregiudizio, in quanto i così detti professori di quell'orchestra protestassero accanitamente di non voler suonare sotto la direzione di un ragazzo forestiero.—A quell'epoca, un artista nato a Ravenna, nel cuor dell'Italia, era un forestiero pei signori professori del teatro di Messina!
Ma l'Accademia filarmonica non permise che il Mariani si partisse da quella città col rammarico di uno sfregio immeritato. Per riparare al gravissimo torto di pochi professori mestieranti, quella Società di eletti musicisti invitò il giovane maestro a dirigere parecchi concerti, dove non poche composizioni di lui vennero eseguite con grande successo. Il principe De-Liguori, intendente generale di quella provincia, commise al Mariani di scrivere diverse marcie e pezzi da concerto per la banda del reale Orfanotrofio, e i nuovi lavori ottennero tal voga, che più tardi i medesimi avversarii del giovane artista dovettero rendergli giustizia e riconoscere i propri torti.
Nell'anno 1845, il Mariani si recò due volte a Napoli, dove strinse relazione coll'illustre Mercadante, dal quale ebbe conforti e consigli. In quella occasione scrisse parecchi componimenti vocali, che vennero appunto eseguiti nella sala del celebre maestro, con molto aggradimento dei pochi ma eletti uditori. In questo genere di composizioni da camera, il Mariani doveva più tardi elevarsi a tale altezza da rivaleggiare coi più famosi, e vincerli spesso.
Nel maggio del 1846 venne a Milano, e qui cominciò pel Mariani la vera, la grande carriera del maestro concertatore: qui il di lui nome acquistò quella voga di popolarità che decide le sorti di un artista. A quell'epoca il pubblico delirava per Verdi. Quella che oggi vien chiamata, quasi con dispregio, la prima maniera del più drammatico, del più popolare, del più affascinante dei moderni compositori, fanatizzava in allora le masse del pubblico italiano per la insolita gagliardia dei concetti e dei modi. Nel 1846, la musica di Verdi presagiva la rivoluzione del 1848—era musica febbrile, convulsa, esuberante; in essa era tutta l'agitazione di un popolo, era tutta una Italia impaziente di giogo straniero e anelante alla pugna. I critici slombati e pedanti, i quali nelle opere dell'artista non veggono che la forma, ed altra perfezione. non riconoscono se non quella che è il prodotto del calcolo, della pazienza, della imitazione, sono nel loro pieno diritto di inneggiare enfaticamente alle ultime produzioni del Verdi al solo scopo di riprovare le prime e di gettarle tutte in fascio alle fiamme[1]. No! noi non saremo così ingrati verso l'illustre maestro, da obliare le grandi e nobili scosse che egli ha prodotto in noi colle sue prime musiche; non ci accuseremo di cretinismo per avere nella nostra giovinezza, preso parte a questo delirio di tutta Italia, pel quale, alle prime rappresentazioni del Nabuco, dei Lombardi, dell'Ernani, gli spettatori balzavano dalle seggiole ed acclamavano al maestro come le turbe acclamano ai profeti. Non è esagerazione ciò che scriviamo. La prima musica del Verdi ha suscitato entusiasmi quali la storia del teatro non ricorda più solenni e più universali. Il pubblico, non diremo d'Italia, ma del mondo, non aspettò il Macbeth, nè il Ballo in Maschera, nè il Don Carlo, per riconoscere il genio di Verdi. Il genio di Verdi era tutto là, nel Nabuco, nell'Ernani, in quelle prime musiche esuberanti, dove prorompeva tutta intiera, nella sua giovanile schiettezza, l'indole appassionata e gagliarda del grande maestro.
Mariani si presentò come direttore di orchestra al teatro Re, dova si eseguivano i Due Foscari dalla signora Angiolina Bosio[2], dal baritono Corsi e dal tenore Volpini, tre artisti allora esordienti che poi divennero famosi. L'appaltatore teatrale Angelo Boracchi, che allora teneva al suo stipendio quell'esercito di giovani cantanti, da cui uscirono la Bosio, la De-la-Grange, il Fraschini, il Ferri, il De Bassini, il Corsi ed altri celebri, riconobbe il talento del Mariani e tosto lo scritturò per l'autunno al teatro Carcano, ove dovevano prodursi grandiosi spettacoli. E fu in quella stagione che il giovane direttore di orchestra si fece anche ammirare come violinista, suonando con nuova squisitezza l'a solo dei Lombardi, di cui ogni sera il pubblico entusiasta chiedeva la replica. Quei saggi promettevano un grande suonatore da concerto; se non che, l'amore delle grandi esecuzioni complesse fece trascurare al Mariani l'esercizio dello istrumento di Tartini, e per tal modo il direttore di orchestra ed il compositore assorbirono più tardi il violinista.
Nella primavera del 1847, il nome di Mariani era celebre. Le sue prime composizioni per canto, fra le quali vuolsi ricordare il Giovane accatone, pubblicata dal Ricordi, si ripetevano ammirate da tutti i dilettanti di Milano.
In quell'anno, per cura dell'intelligente ed audacissimo Boracchi[3] il Carcano venne riaperto con spettacolo d'opera, e il Mariani richiamato a dirigere l'orchestra. Fu una stagione memorabile, pel numero e la valentia degli artisti scritturati, per la varietà delle opere, per lo splendore inusato della messa in scena, per la singolarità degli aneddoti che in quella ricorrenza si produssero, pei tumultuosi entusiasmi del pubblico, forieri di rivoluzione. Si era aperta la stagione coll'opera Giovanna d'Arco, eseguita da una Ranzi, dal tenore Volpini e dall'autore della presente biografia, che, in allora ignaro affatto di ogni disciplina musicale, cantava da baritono[4]. Nè in appresso, nè mai, al teatro Carcano suonarono più clamorose ovazioni. Il celebre tenore Moriani[5], attore e cantante insuperabile, si produceva nel Rolla del Ricci e veniva acclamato il Modena del canto. Uranio Fontana, che divenne più tardi, a Parigi, maestro di canto all'Accademia Imperiale ed al Conservatorio, faceva eseguire la sua nuova opera i Baccanti, scritta sullo stile di Verdi, su quello stile tanto criticato in allora dalla massa dei maestri impotenti, nondimeno imitato da tutti. La messa in scena di quell'opera del Fontana diede luogo ad un curioso episodio, del quale l'autore di questo scritto può dire con Cicerone: pars magna fui. Non dispiaccia ai nostri lettori di veder qui riferito un frammento di storia teatrale, che riflette vivamente le condizioni dell'epoca.
Le prove dei Baccanti procedevano affrettate e scompigliatissime. I cantanti principali non erano ben sicuri delle loro parti; la prima donna, per certe sue antipatie verso l'autore dell'opera, poneva la miglior volontà del mondo acciò tutto camminasse alla peggio; i cori e l'orchestra non aveano fatto prove sufficienti. In ogni modo, stringendo il tempo e volgendo al termine la stagione, lo spartito doveva andar in scena. Quando il maestro e gli artisti meno se lo aspettavano, furono invitati alla così detta prova generale. Proteste da parte del Fontana, resistenza assoluta da parte dell'impresario, minaccie inesorabili da parte dell'Autorità politica, che da ogni nonnulla vedeva insorgere il temuto spettro della rivoluzione.
Si dà principio alle prove. I suonatori, svogliati e insolitamente ribelli all'arco del loro conduttore—i coristi male imbeccati e peggio diretti—la prima donna raffreddata e smorfiosa—tutto sembra cospirare contro il povero maestro perchè la sua opera abbia a riuscire una parodia. Tanto fa, che a metà dell'atto primo, l'ottimo Fontana, uomo di temperamento nervoso e di carattere oltre ogni dire irritabile, comincia a dare in ismanie, e da ultimo, fatto fascio delle partiture e recatesele in braccio, a fuggire protestando.
Non era che il prologo della commedia. In teatro un tumulto da non dire. Gli artisti e il direttore di orchestra domandavano la sospensione delle prove; ma l'impresario, pressato e minacciato dalle Autorità politiche, ad esigere che si tirasse innanzi alla meglio, dovendosi all'indomani produrre la nuova opera ad ogni costo.
Simile ad un generale di armata che prevede la mala riuscita di un attacco, ma nullameno sente l'obbligo di sobordinarsi ad una volontà più potente della sua, il Mariani si leva in piedi, e si prova, con una arringa commoventissima, ad infiammare l'ardore dei suoi incruenti soldati.
Le prove vengono riprese; fra il male ed il bene si giunge alla fine, si spengono i lumi, e ciascuno se ne va pe' fatti suoi, pronosticando per l'indomani uno di quei fiaschi colossali che al teatro Carcano, segnatamente a quell'epoca, prendevano le proporzioni di un tumulto popolare[6].
All'indomani, il maestro Fontana, l'autore della nuova opera, venne di buon mattino a visitarmi. Egli era profondamente addolorato. Egli mi domandava affannosamente se non vi era modo di impedire per quella sera la minacciata esecuzione del suo primo spartito musicale. Vi era qualche cosa di straziante nella sua parola, vi era la disperazione di un giovane ingegno che protesta come può meglio, che reagisce colle ultime forze della sua volontà contro la prepotenza della speculazione; vi era la angoscia di un padre che, a costo di perdere sè medesimo, vuol salvare ad ogni modo la sua creatura minacciata.
Le smanie del povero maestro mi commossero siffattamente, ch'io deliberai di venire in suo aiuto, rendendo impossibile per quella sera la rappresentazione del nuovo spartito.
Scrissi all'impresario una lettera, nella quale, protestando contro l'indegnità che egli stava per commettere, lo invitava a ritirare gli annunzi dei Baccanti, avvertendolo che io, per quella sera ed altre successive, mi sarei reso irreperibile, fino a quando la esecuzione della nuova opera non fosse migliorata da ulteriori concerti.
Inviata quella lettera all'impresario, io mi rifugiai nella casa di un amico, e quivi stetti ad attendere i fati.
Trattandosi di spartito affatto nuovo, non era possibile trovare un baritono che mi supplisse per quella sera. Nullameno, la cocciutaggine degli agenti di polizia tenne fermo nell'imporre all'impresario che lo spettacolo non venisse mutato. Il conte Bolza[7] era onnipotente a quell'epoca. Ma questa volta egli aveva a lottare contro un cervello balzano, che non riconosceva nè avea mai riconosciuto il potere di alcuna autorità costituita. Furono spedite delle spie in ogni caffè, in ogni trattoria della città; furono, perfino, nella supposizione che io mi fossi recato a Pavia, inviati dei gendarmi a cavallo su quello stradale, per arrestare il fuggiasco baritono. La polizia consumò la giornata in codeste strategie, e contando pur sempre di raggiungere il suo intento, lasciò che la folla, avida del nuovo spettacolo, invadesse il teatro.
E quella folla era davvero imponente. Alcuni amici