Animato dal cortese signor Chiesa a raccogliere in un volume sette mie novelle, pensai di frapporvi alcune poesie a modo d'intermezzi, com'è uso trattenere gli spettatori, fra un atto di commedia e l'altro, con qualche breve pezzo di musica.
I miei intermezzi sono appunto versioni dalla musica. E qui debbo pure chiarirne, in due parole, il concetto.
La musica migliore genera in molti e anche in me ombre vane, per così dire, di sentimenti; gioia e dolore senza causa, desiderio, sgomento, pietà senza oggetto, baldanze superbe che cadono con l'ultima nota, violenti impolsi ad impossibili azioni. Suggerisce pure confuse immagini alla fantasia; arriva a significare torbidamente un discorso, un dialogo, un dramma, incomprensibili perchè la lingua n'è ignota e lontana da ogni altra, ma improntati, nel suono, di passione umana, e svolti, persino, giusta un ordine di premesse e di conseguenze, che somiglia indubbiamente ai raziocini migliori di questo mondo. Allora lo spirito nostro si avventa al mistero, vi batte follemente e vi fiacca le ali sulla porta impenetrabile, cade vinto. Io per parte mia ho talvolta cercato di consolarmene immaginando e scrivendo ciò che la lingua ignota potrebbe forse significare, ciò che vi potrebb'essere al di là della porta impenetrabile, le cause arcane di quei sentimenti la cui sola ombra mi commoveva tanto. Così mi vennero composti cinque intermezzi su temi di Boccherini, Martini, Clementi, Chopin e Beethoven.
Fermo di mantenere debitamente distinte le due arti, sperai che questi temi diventassero nelle mie versioni pura, indipendente poesia, e forse ottenni soltanto che cessassero di essere buona musica. Certo non mi accinsi a tradurli prima di averli intensamente meditati, e nessuna persona ragionevole saprà dimostrarmi aver io peccato d'infedeltà.
Ho posto dopo le novelle un breve scritto escito l'anno scorso sopra un giornale di Roma in forma di lettera al direttore del giornale e col titolo «Liquidazione». Presto si vide, con mio rossore e con sorpresa di alcuni onesti lettori, che quel titolo era stato poco sincero e il mio ritiro dalla letteratura una vana illusione. Ne fui meritamente censurato, e ristampo qui lo scritto colpevole, per ammenda.
A. Fogazzaro.
— Soffio, signor Fogazzaro — disse, quella sera indimenticabile del 1.º agosto 1884, il generale Trézel, pigliandomi una delle mie povere pedine. — Stia attento!
— Alle dame — gli rispose per me la signorina Prina toccandomi il braccio con la penna. — Avanti! Detti! Mi, co te vedo, sento Un certo non so che; e poi?
— Scusi, generale — diss'io dopo aver mossa una pedina a caso. — E digo che nol sento, E digo che nol gh'è.
— Fa piacere, Filippo! — disse la signorina a suo fratello che cercava inutilmente sul piano il motivo dell'Aria di Chiesa di Stradella.
Continuai a dettare la vecchia canzonetta che piaceva tanto alla società milanese, molto intelligente, molto distinta, dell'Hôtel Brocco.
Mi me se inchiava i denti
Quando te voi parlar;
E digo: i xe acidenti...
Qui mi mancò la memoria. La signorina Prina, le altre amabili signore e un paio di giovinotti molto disposti a usare della graziosa strofetta per i loro fini particolari, se ne desolavano. Il verso non venne e io potei solo ripetere alla damigella con il più sentimentale accento che seppi:
Mi me se inchiava i denti
Quando te voi parlar.
— I xe acidenti — osservò sorridendo donna Luisa Trézel con la sua solita finezza benevola e ironica insieme. — Chi sa — soggiunse sotto voce — che il signor Fogazzaro possa avere il versetto dalla sua fedele.
Tutti risero e io mi seccai. Mi rimisi a giuocare con attenzione; poi, siccome Filippo non veniva a capo di nulla, mi alzai, gli accennai con la mano destra le prime battute dell'Aria di Chiesa.
— Mangio, signor Fogazzaro — disse il generale che non aveva mai tolto gli occhi dallo scacchiere se non per guardare di traverso, qualche volta, pianoforte e suonatore. La sua signora mi domandò se fossi in collera con lei. Non ero in collera, ma mi seccavano le allusioni a quella persona che donna Luisa chiamava la Sua fedele. Era una giovane signora arrivata da tre giorni a S. Bernardino, sola. Nessuno la conosceva. Salutava molto gentilmente ma non parlava mai con nessuno. La gente dell'albergo asseriva ch'era veneziana. Sul cartoncino che là usano allacciare intorno alle salviette, perchè i forestieri vi scrivano il proprio nome, ell'aveva scritto con una calligrafia punto inglese, punto elegante:
Signora Fedele.
Era bionda: non alta ma snella; bellina assai ma più delicata e graziosa che bella. Lo confesso, non saprei dire con certezza il colore de' suoi occhi; avevano forse il colore mutabile del mare presso il quale era nata. Portava sempre lo stesso costume grigio, la stessa toque di pelliccia nera, gli stessi guanti neri. Usciva tardi per qualche passeggiata solitaria; alla fonte non si vedeva mai. La sera scendeva al caffè verso le nove. Se si faceva musica, restava lungamente nel suo angolo scuro, lontano dal pianoforte; altrimenti prendeva il caffè e spariva.
Si facevano commenti infiniti sulla sua origine, sul suo contegno misterioso, sul nome Fedele che serviva persino al generale Trézel per illudersi di avere spirito. Mi accadde una volta, nel solito crocchio della loggia, prender le sue difese contro le signore, che mi parevano troppo maligne. Ella passò in quel momento improvvisamente, salendo dalla via. Era molto accesa in viso, ma non guardò alla nostra volta. Mi guardò invece quel giorno stesso, passandomi vicino nella sala da pranzo, con uno sguardo che a' miei amici parve di gratitudine. Ne avrei proprio fatto a meno, perchè poi non mi tribolassero tanto.
— Che miracolo, stasera, esser venuta giù così presto? — disse piano Filippo che le aveva probabilmente dedicato i suoi pasticci musicali.
Infatti la signora Fedele era già nel suo angolo e suonavano in quel punto le otto.
— Aspetterà il concerto — disse la signora Prina.
Ci avevano annunciato per quella sera il concerto d'un cieco suonatore di pianoforte.
Un signore che stava in piedi presso a me, guardando giuocare al biliardo, ci disse che il concertista si era fatto scusare per una indisposizione del suo compagno.
A questo punto qualcuno disse sull'entrata del caffè:
— Nevica.
Le signore si alzarono esclamando, i giuocatori di biliardo gittarono le stecche, i giuocatori di tarocco le carte. Perfino il generale Trézel accordò una tregua alle mie pedine. Tutti si precipitarono in sala e di là in loggia. Non accade così facilmente di veder nevicare in agosto.
A me, antico frequentatore di quelle Alpi, ciò era successo più volte. Mi alzai tranquillamente e mi accostai a una finestra.
Era uno spettacolo fantastico, una magnifica festa notturna che il vento del Nord e la neve offrivano alla luna. Ella sorgeva sopra mille punte d'abeti, fra due montagne enormi, nel sereno. Ora la vedevo lucida, ora un turbinare di fumo argenteo la nascondeva nella sua stessa luce. Perchè non si poteva propriamente dire che nevicasse. Era neve delle cime, cacciata dalla tormenta. Fra un turbine e l'altro si vedevano tutte le creste bianche fumar su nel cielo azzurro.
— La scusi, signor Fogazzaro — mi disse in veneziano una voce tremante. — Non c'è il concerto, stasera?
Mi voltai, sorpreso.
— Scusi la libertà — riprese la signora Fedele. — So che siamo quasi concittadini.
Ma non mi ero tanto sorpreso del suo improvviso interrogarmi come della commozione strana, profonda, che sentivo nella sua voce, in una domanda così volgare. E poi il caro dialetto usato così di primo acchito, e quel chiamarmi per nome, mi avevano avvicinato con violenza alla misteriosa signora; con una violenza certo voluta da lei chi sa per qual fine.
— S'immagini! — le risposi. — Non credo che ci sia concerto. Ho udito che il compagno del cieco è malato e che questi s'è fatto scusare.
— E andrà via, forse? Non suonerà più?
I begli occhi mi parvero a un tratto più grandi, la voce più tremante.
— Non lo so davvero — risposi. — Credetti poi di dover soggiungere per cortesia:
— Lei ama molto la musica?
Ella non rispondeva, guardava fuori nella tempesta, nel baglior di luna e di neve. Scorso qualche momento, mi domandò ancora:
— Il compagno, ha detto?
— Un signore, poco fa, diceva il compagno; ma ora, pensandoci, credo che s'inganni. Credo che sia una compagna, una signorina.
Ella appoggiò la fronte alle invetriate, come per veder meglio; in fatto, per non esser veduta in viso da me; e ricominciò a parlar con voce più sommessa di prima, più rotta dall'emozione.
— Sono qui senz'amici — diss'ella — senza nessuno, e posso aver tanto bisogno di un'anima buona. Penserà male di me, Lei, adesso? No, sa, non pensi male. So che Lei non mi giudica come gli altri. E poi m'hanno detto che ha famiglia. È per questo!
Parlava, così accorata!
— Si calmi, signora — risposi. — Se posso qualche cosa...
La gente tornava allora correndo, schiamazzando, allegra e intirizzita, dallo spettacolo della neve, e il generale mi cercava con gli occhi per finire la partita. Ci dividemmo rapidamente. Subito dopo, il padrone dell'albergo venne a fare pubblicamente le scuse del concertista, signor Zuane, impedito dalla indisposizione di sua figlia, che doveva accompagnarlo anche al piano. Lo stesso signor Brocco ci informò poi delle tristi condizioni di questo poveruomo, che, senza il concerto, non saprebbe come pagare lo scotto dell'infimo albergo dove alloggiava. Le signore, impietosite, mi pregarono d'andarlo a pigliare. Un valente allievo del conservatorio di Milano s'offerse di suonare con lui.
Partimmo subito, il giovinotto ed io, pieni di zelo. Il cieco signor Zuane ci accolse con gratitudine dignitosa, con grave cortesia da re in esilio, parlando un italiano floscio che affondava ogni momento nelle mollezze del mio dialetto natio. Era insieme comico e triste di udirlo discorrere così solennemente, accompagnando alle parole il gesto ampio e interrompendosi tutto perplesso quando incontrava con la mano il cappello nevicato che il mio compagno gli aveva storditamente posto davanti sul tavolino. Udivamo la signorina Zuane tossire nella camera vicina, aperta, da cui entrava una luce affatto superflua al signor Zuane, affatto insufficiente a noi. La signorina ci pregò, nello stesso morbido linguaggio paterno, di venire a prenderci il lume. La sua voce mi colpì; quando poi vidi lei a letto, credetti proprio vedere i capelli biondi, il delicato viso della signora Fedele.
— Le raccomando tanto papà, signore — mi disse. — Sento che sono così buoni!
Poi alzò il capo dal guanciale e mi accennò di accostarmi a lei.
— La scusi, per carità — mi sussurrò ansiosa. — Conosce Lei qui una signorina veneziana, bionda, che mi somiglia?
— Sì, la signora Fedele.
— Per carità, non la lasci parlare a papà, La supplico a ogni costo! Glielo dica magari a nome mio. A nome della Lisetta, dica. Adesso no, adesso no per carità!
Non si spiegò più di così. Partendomene con il signor Zuane, cercavo invano, fra me e me, di penetrare il mistero di dolore che avevo sentito prima nelle parole della Fedele, poi in quelle della signorina Lisetta; e mi pesava assai d'essermivi lasciato immischiare.
Non vidi bene lo Zuane in viso che all'Hôtel Brocco, davanti alle candele del piano, quand'egli aspettava, in piedi, che aprissero lo strumento, che ne portassero via le montagne di musica e si accomodassero gli sgabelli. Altissimo della persona, si teneva immobile ed eretto come una statua d'imperatore antico, levando sopra noi tutti la faccia più marmorea e tragica ch'io abbia incontrato mai. Era una faccia color di cera, senza un pelo, dal naso scultorio, dall'austera fronte imperiosa, piena d'anima sopra gli occhi sinistramente chiusi, piena quasi di un arcano sguardo che vi si spandesse sotto, cercando uscita.
Non c'era moltissima gente, perchè la società dell'Hôtel Ravizza non aveva osato affrontare il vento e la neve. La signora Fedele era là, nel suo cantuccio favorito. Guardava il cieco, ma non accennava di volerlo accostare.
Nei brevi momenti della mia visita allo Zuane e del tragitto all'albergo, lo avevo udito parlar dell'arte sua con la devozione sincera, profonda di un fanatico. Egli era, tuttavia, assai mediocre artista. Aveva più forza ed esattezza che espressione, e mostrava poi, nella scelta dei pezzi, un gusto molto dubbio. Il pubblico, tocco dalla sua sventura, applaudì il primo ed il secondo pezzo, applaudì più ancora il terzo, una fantasia a quattro mani in cui l'allievo del Conservatorio si fece troppo onore con scarsa carità del povero cieco.
Ma il programma era soverchiamente lungo. Parecchi uscirono a guardare il tempo, a giuocare nel gabinetto attiguo al caffè. I pochi rimasti chiacchieravano. Durante il quinto o sesto pezzo, non ricordo bene, la signora Fedele si alzò e venne dov'ero io, presso al piano, nel vano della finestra. Guardava, molto pallida, quelli che uscivano, guardava quelli che conversavano, con occhiate, non dirò di sdegno ma di tristezza amara. Io tremava che, finito il pezzo, ella volesse appiccar discorso con lo Zuane. Avevo ancora negli orecchi gli scongiuri della signorina malata, quel suo affannoso «La supplico!» Mi chinai e le dissi:
— La signorina Lisetta La scongiura di non parlargli, adesso.
Ella trasalì, m'interrogò con uno sguardo attonito e diffidente.
— Non so niente — risposi. — Lei ha detto così. Non so altro.
— Non parlerò — diss'ella sottovoce, rapidamente. — Ma Ella ha promesso il suo appoggio a me, sa, prima che alla Lisetta!
In quel momento lo Zuane pose fine al suo faticoso pezzo. Egli pregò alcuno dei signori presenti a volersi compiacere di raccogliere le offerte. Io stava per farmi avanti, quando la signora Fedele mi trattenne e mi chiese di avvertire lo Zuane che una signorina gli offriva di chiudere il suo concerto con un pezzo vocale; e che sarebbe bene non uscire col piatto che poi. Io esitava, ma il ragazzo Prina, che stava lì a mangiarsela cogli occhi, colse a volo le parole di lei, e si affrettò di pubblicare la proposta, cui lo Zuane accolse con l'usata solennità, fiutando l'aria mentre parlava, in qua e in là, come per iscoprire dove la gentile donna fosse.
La Fedele mi susurrò all'orecchio:
— Lei mi accompagna l'Aria di Chiesa? Gliela ho udita suonare, stasera.
Mi scusai, con ottime ragioni. Ella preferì allora non pregare altri e accompagnarsi da sè. Mentre si toglieva i guanti feci alzare il signor Zuane e lo condussi, di proposito, a sedere alquanto discosto dal piano. Intanto la gente, avvertita come per incanto, rifluiva nel caffè a udir la bella venezianina. Lo Zuane si trovò subito in mezzo a un gruppo di persone.
La signora si pose al piano. Io ero in piedi vicino a lei; potevo vedere il leggero tremito delle sue mani, l'inquietudine delle sue labbra. Mi chinai per dirle all'orecchio che avrei potuto pregare l'allievo del Conservatorio di accompagnarla. Scosse il capo nervosamente e incominciò subito, con mano sicura il preludio. Prima di finirlo, mi diede un'occhiata come per dirmi: «Le pare?»; come per mostrarmi il suo viso pallido, ma risoluto.
Vorrei poter esprimere la timida dolcezza accorata del suo canto quando incominciò sottovoce:
Pietà, Signore
Di me dolente.
Guardai involontariamente i Prina e i Trézel, dei cui bisbigli, dei cui sorrisi ironici m'ero bene accorto. Non sorridevano più. Gli occhi miei, tornando lentamente al piano, incontrarono a caso il volto del cieco, mentre la dolce voce saliva con un fremito di passione alle parole:
Se a te giunge il mio pregar
Non mi punisca il tuo rigor.
Lo Zuane porgeva il viso accigliato verso la musica, ascoltando a bocca semiaperta. A un tratto lo vidi piegarsi a destra, susurrar qualche cosa a un vicino che gli rispose guardando la Fedele, come se gli parlasse di lei. Ella cantava allora con uno straziante spasimo nella voce:
Ah non fia mai che nell'inferno
Io sia dannata al fuoco eterno.
Lo Zuane si alzò in piedi con una faccia terribile, agitò le braccia verso la parte opposta al pianoforte, quasi per farsi strada fra la gente. Tutto il pubblico si voltò a lui, zittì così imperiosamente, ch'egli si fermò sull'atto, si ripose a sedere. La signora Fedele s'imbarazzò nell'accompagnamento, smarrì l'intonazione, si coperse il viso con le mani.
— Coraggio! — le dissi sotto voce — Avanti!
— Non posso, non posso — rispose senza scoprirsi. — Sto male, faccia le mie scuse.
Dissi forte che la signora si sentiva male e non poteva proseguire. Vi ebbe un momento di agitazione, perchè i vicini dello Zuane e anche altri sospettavano una occulta relazione fra l'atto del cieco e il turbarsi di lei; ma poi uno, due, quattro batterono le mani, scoppiò l'applauso da tutta la sala. Parecchie signore si accostarono alla Fedele, offrirono il loro aiuto, insistettero perchè prendesse qualche cordiale, perchè si ritirasse. Rifiutò l'una e l'altra cosa ringraziando umilmente, ma più quasi con gli occhi e il piegar del capo che con la voce. La voce pareva rotta, spenta. Si alzò dal piano, sedette nel vano della finestra.
Volli starle vicino e pregai il Prina di raccogliere le offerte. Le monete piovevano nel piatto. Lo Zuane volgeva il capo a destra e a sinistra dietro al tintinnio dell'argento. Pareva impaziente di fare o dire qualche cosa.
La signora Fedele seguiva cogli occhi intenti ogni suo moto. Il Prina le si accostò esitante, dubitando se dovesse rivolgersi anche a lei o no. Ella gli accennò col capo di venire e, trattosi un anello, lo posò sul piatto.
— Io ringrazio questi gentili signori — disse lo Zuane quando gli furono recate le offerte — io ringrazio questi gentili signori e prego che il danaro sia dato per i colerosi di Marsiglia.
Le ultime parole furono proferite da lui con una subita energia di voce, con un aggrottar fiero di ciglia, con un gran gesto d'ambo le braccia.
La Fedele non diè segno nè di sorpresa nè di collera. Guardava sempre lui, sempre quella faccia marmorea, quegli occhi spenti.
— Le hanno dato anche un anello, signor Zuane — disse il Prina.
Il cieco stese un braccio, brancicò le monete del piatto, prese l'anello, lo palpeggiò con le dieci dita, alzando la fronte.
— Non accetto quest'anello — diss'egli. — La persona che lo ha dato lo riprenderà. — Suppongo — soggiunse con voce quasi iraconda — ch'è ancora presente.
Nessun fiatò. Lo Zuane ripetè la domanda. Allora la Fedele accennò al Prina che rispondesse di no, come infatti rispose immediatamente.
— Pregherò i signori che m'hanno accompagnato, di restituire l'anello domattina — disse il cieco. — Intanto è mio dovere esprimere la mia gratitudine a questi signori.
Si fece condurre al piano e cominciò a tempestarvi su il suo pezzo di ringraziamento, mettendo in fuga la gente, che andò a passeggiare e a commentare l'accaduto nella sala vicina. La signora Fedele, l'allievo del Conservatorio, il giovinetto Prina e io eravamo soli presso al piano.
— Sento che la sala è vuota — disse lo Zuane cessando dal suonare. — Vi è qualcuno presso di me?...
— Sì, sì — risposi.
— Ah, quel signore veneto — diss'egli. — Io sono stato poco gentile, stasera, e devo almeno a lei qualche spiegazione.
Stavo proprio sulla brage e protestai di non volere spiegazioni; ma quegli insistette e la signora mi scongiurò, in silenzio, a mani giunte, con un viso disperato, di lasciarlo parlare. Guardai involontariamente gli altri che intesero e piano piano, molto a malincuore, se ne andarono.
— Non potevo prendere del denaro guadagnato da lei, capisce — disse lo Zuane. — È mia nipote, l'ho allevata io, l'ho educata io. Una cosa orribile! Mi ha tradito.
Soffrivo inesprimibilmente, mi pareva d'essere un traditore io stesso, a permettere ch'egli parlasse così davanti a lei; ma ella lo voleva. Aveva voltato il viso alle finestre, adesso. Chi ci spiava dall'altra sala poteva credere che guardasse la luna e la tormenta. Dio, perchè si ostinava a star lì? Le toccai leggermente una spalla. Ella m'indovinò, negò del capo con la stessa muta energia di poc'anzi.
Lo Zuane tacque un poco, aspettandosi forse qualche domanda. Poi riprese:
— Quell'anello mi era caro, una volta; adesso no, adesso no!
Io lo interruppi, gli offersi di accompagnarlo a casa, dove la signorina Lisetta stava forse in angustia. Potrebbe parlarmi per via se volesse.
— Sì sì — rispose senza muoversi — ma del resto è presto detto. Tutte le