Alessandro D'Ancona, in quel suo notissimo studio su Cecco Angiolieri da Siena,[1] dopo aver notato quanto vi sia di burlesco in questo nostro poeta del sec. XIII, osserva: «Ma per noi l'Angiolieri non è soltanto un burlesco: bensì anche, e più propriamente, un umorista. E qui i camarlinghi della favella ci faccian pure il viso dell'arme, ma non pretendano di dire che in italiano bisogna rassegnarsi a non dir la cosa, perchè non abbiam la parola».
E, accortamente, in una nota a pie' di pagina,[2] soggiunge: «È curioso però che il traduttore francese di una dissertazione tedesca sull'Humour, inserita nel Recueil de piéces intéressantes, concernant les antiquités, les beaux-artes, les belles-lettres, citando il Riedel. Theor. d. Schöne Kunsten, I. artic. Laune, sostenga che sebbene gli Inglesi, ed il Congreve in particolare, rivendichino per sè i vocaboli humour e humourist «il est néanmoins certain qu'ils viennent de l'italien».
E quindi il D'Ancona riprende: «Del resto, poi, la nostra lingua ha umore per fantasia, capriccio, e umorista per fantastico: e gli umori dell'animo e del cervello ognun sa che stanno in stretta relazione con la poesia umorista. E l'Italia ebbe ai suoi tempi le accademie degli Umorosi a Bologna ed a Cortona e degli Umoristi in Roma,[3] e speriamo che i mali umori della politica non le facciano mai venir meno i begli umori nel regno dell'arte».
La parola umore derivò a noi naturalmente dal latino e col senso materiale che essa aveva di corpo fluido, liquore, umidità o vapore, e col senso anche di fantasia, capriccio o vigore. «Aliquantum habeo humoris in corpore, neque dum exarui ex amoenis rebus et voluptariis» (Plauto). Qui humor non ha evidentemente senso materiale, perchè sappiamo che, fin dai tempi più antichi, ogni umore nel corpo era ritenuto segno o cagione di malattia.
«Li uomini, — si legge in un vecchio libro di mascalcia, — hanno quattro umori: cioè lo sangue, la collera, la flemma e la malinconia: e questi umori sono cagione delle infermità degli uomini». E in Brunetto Latini: «Malinconia è un umore, che molti chiamano collera nera, ed è fredda, e secca, ed ha il suo sedio nello spino» — com'è insomma nel latino di Cicerone e di Plinio. Sant'Agostino poi in un suo sermone ci fa sapere che «i porri accendono la collora, i cavoli generano malinconia».[4]
Sarà bene, trattando dell'umorismo, tener presente anche quest'altro significato di malattia della parola umore, e che malinconia, prima di significare quella delicata affezione o passion d'animo che intendiamo noi, abbia avuto in origine il senso di bile o fiele e sia stata per gli antichi un umore nel significato materiale della parola. Vedremo appresso la relazione che le due parole umore e malinconia avranno tra loro assumendo un senso spirituale.
Diciamo intanto che tal relazione, se non mancò affatto nello spirito della nostra lingua, certo non vi apparve chiaramente. Da noi, infatti, la parola umore o serba il significato materiale, tanto che un proverbio toscano può dire: «Chi ha umore non ha sapore» (alludendo alle frutta acquose); o, se assume un significato spirituale, esprime sì inclinazione, natura, disposizione o stato passeggero d'animo o anche fantasia, pensiero, capriccio, ma senza una qualità determinata; tanto vero che dobbiamo dire umor tristo o gaio, o tetro, buono o cattivo o bell'umore, ecc.
Insomma, la parola italiana umore non è la inglese humour. Questa, come dice il Tommaseo, racchiude e contempera le nostre espressioni bell'umore, buonumore e malumore. C'entrano un po', dunque, i cavoli di Sant'Agostino.
Discutiamo adesso su la parola, non su la cosa: è bene avvertirlo, perchè non vorremmo si credesse che a noi manchi veramente la cosa per il solo fatto che la parola nostra non riuscì idealmente a serbare e a contemperare in sè ciò che già materialmente includeva. Vedremo che tutto, in fondo, si riduce a un bisogno di più chiara distinzione che sentiamo noi, perchè, o bello o buono o tetro o gajo, umore è sempre, e non è diverso dall'inglese nell'essenza, ma nelle modificazioni che naturalmente vi imprimono la lingua diversa e la varia natura degli scrittori.
Del resto, non si creda che la parola inglese humour e il suo derivato umorismo siano di così facile comprensione.
Il D'Ancona stesso, in quel suo saggio su l'Angiolieri, su cui più tardi dovremo ritornare, confessa: «S'io dovessi dare una definizione dell'umorismo sarei davvero molto impacciato». Ed ha ragione. Tutti dicono così.
Piuttosto no 'l comprendo, che te 'l dica.
Di tutte quelle tentate nei secoli XVIII e XIX parla in un suo studio già citato, il Baldensperger, per concludere, a modo del Croce, che: «il n'y a pas d'humour, il n'y a que des humouristes», come se per poter dire o riconoscere che questo o quello scrittore è un umorista, non si dovesse avere un qualche concetto dell'umorismo, e bastasse sostenere, come fa il Cazamian, citato dallo stesso Baldensperger, che l'umorismo sfugge alla scienza, perchè gli elementi caratteristici e costanti di esso sono in piccolo numero e sopratutto negativi, laddove gli elementi variabili sono in numero indeterminato. Sì. Anche l'Addison stimava più facile dire ciò che l'humour non è, che dire ciò che è. E tutte le fatiche che si son fatte per definirlo ricordano veramente quelle speciosissime che si fecero nel secolo XVII per definir l'ingegno (oh, il Cannocchiale aristotelico di Emmanuele Tesauro!) e il gusto o buon gusto e quell'ineffabile non so che, per cui il Bouhours scriveva: «Les Italiens, qui font mystère de tout, emploient en toutes rencontres leur non so che: on ne voit rien de plus commun dans leur poëtes». Gl'Italiani «qui font mystère de tout». Ma andate a domandare ai Francesi che cosa intendano per esprit.
Quanto all'umorismo, «certo è, — seguita il D'Ancona, — che la definizione non è facile, perchè l'umorismo ha infinite varietà, secondo le nazioni, i tempi, gl'ingegni, e quel di Rabelais e di Merlin Coccajo non è una cosa coll'umorismo dello Sterne, dello Swift o di Gian Paolo, e la vena umoristica dello Heine e del Musset non è di egual sapore. Non vi ha poi forse alcun altro genere nel quale sia, o dovrebbe esser più sottil differenza dalla forma prosaica alla poetica, per quanto ciò non venga sempre avvertito dai lettori, e neanche dagli scrittori. Ma di ciò, e delle ragioni di queste differenze, e delle varietà fra l'umore e la satira e l'epigramma e la facezia e la parodia e il comico d'ogni foggia e qualità, e se, come vuole il Richter, alcuni umoristi sieno semplicemente lunatici, non è qui il luogo di discutere. Certo è questo, che un fondo comune vi è in tutti coloro che la voce pubblica raccoglie sotto la stessa denominazione di umoristi».
L'osservazione in fondo è giusta; ma — piano con la voce pubblica! — vorremmo dire al D'Ancona. «Dopo la parola romanticismo, la parola più abusata e sbagliata in Italia (in Italia soltanto?) è quella di umorismo. Se fossero realmente umoristi gli scrittori, i libri, i giornali battezzati con questo nome, noi non avremmo nulla da invidiare alla patria di Sterne e di Thackeray o a quella di Gian Paolo e di Heine. Non si potrebbe uscir di casa senza incontrar per la strada due o tre Cervantes e una mezza dozzina di Dickens... Vogliamo solo notare fin da principio che vi è una babilonica confusione nell'interpretazione della voce umorismo. Per il gran numero, scrittore umoristico è lo scrittore che fa ridere: il comico, il burlesco, il satirico, il grottesco, il triviale: — la caricatura, la farsa, l'epigramma, il calembour si battezzano per umorismo: come da un pezzo si costuma di chiamare romantico tutto ciò che vi è di più arcadico e sentimentale, di più falso e barocco. Si confonde Paul de Kock con Dickens, e il visconte d'Arlincourt con Victor Hugo».
Questo notava Enrico Nencioni, già fin dal 1884, in un articolo su la Nuova Antologia intitolato appunto L'Umorismo e gli Umoristi, che fece molto rumore.
Non si può dir veramente che la voce pubblica in tutto questo lasso di tempo, si sia ricreduta. Anche oggi, per il gran numero, scrittore umoristico è lo scrittore che fa ridere. Ma, ripeto, perchè in Italia soltanto? Da per tutto! Il volgo non può intendere i segreti contrasti, le sottili finezze del vero umorismo. Si confondono anche altrove la caricatura, la farsa bislacca, il grottesco con l'umorismo; si confondono anche là dove al Nencioni sembrava (e non a lui soltanto) che l'umorismo stèsse di casa: non ha forse nome d'umorista Mark Twain, i cui racconti sono, secondo la sua stessa definizione «una collezione di eccellenti cose, prodigiosamente divertenti, che strappano il riso anche dai volti più ingrugniti?».
Il giornalismo, un certo giornalismo si è impadronito della parola, l'ha adottata e, sforzandosi di far ridere più o meno sguajatamente a ogni costo, l'ha divulgata in questo falso senso.
Cosicchè ogni vero umorista prova oggi ritegno, anzi sdegno a qualificarsi per tale. — Umorista, sì, ma... non confondiamo, — si sente il bisogno d'avvertire: — umorista nel vero senso della parola.
Come dire:
— Badate ch'io non mi propongo di farvi ridere facendo sgambettar le parole.
E più d'uno, per non passar da buffone, per non esser confuso coi centomila umoristi da strapazzo, ha voluto buttar via la parola sciupata, abbandonarla al volgo, e adottarne un'altra: ironismo, ironista.
Come da umore, umorismo; da ironia, ironismo.
Ma ironia, in che senso? Bisognerà distinguere, anche qui. Perchè c'è un modo retorico e un altro filosofico d'intendere l'ironia.
L'ironia, come figura retorica, racchiude in sè un infingimento che è assolutamente contrario alla natura dello schietto umorismo. — Implica sì, questa figura retorica, una contradizione, ma fittizia, tra quel che si dice e quel che si vuole sia inteso. La contraddizione dell'umorismo non è mai, invece, fittizia ma essenziale, come vedremo, e di ben altra natura.
Quando Dante aggrava la riprensione eccettuando dal numero dei ripresi chi è più riprensibile, come per la brigata dei prodighi matti, allor che esclama: ... Or fu giammai — Gente sì vana? e un dannato risponde: — Tranne lo Stricca... E tranne le brigata; oppure là dove dice:
Ogni uom v'è barattier fuor che Bonduro;
o quando rammenta il bene per esacerbare il sentimento del male, come fanno i diavoli al barattier lucchese:
... Qui non ha luogo il Santo Volto
Qui si nuota altrimenti che nel Serchio;
o quando a chi parla fa rammentare i proprii vantaggi nell'usarli aspramente, come fa quell'altro diavolo che toglie a S. Francesco l'anima d'un reo, argomentando teologicamente su la penitenza, per modo che quell'anima presa da lui si sente dire:
Forse
Tu non pensavi ch'io loico fossi;
o quando esclama:
Godi, Firenze, poichè sei sì grande;
oppure:
Fiorenza mia, ben puoi esser contenta
Di questa digression che non ti tocca
. . . . . . . . . . . . . . . .
Or ti fa lieta, che tu hai ben onde;
Tu ricca, tu con pace, tu con senno...
dà mirabili esempi di ironia nel senso retorico della parola: ma nè qui, nè in altro punto, del resto, della Comedia, non è traccia d'umorismo.
Un altro senso, dicevamo, e questo filosofico, fu dato alla parola ironia in Germania. Lo dedussero Federico Schlegel e Ludovico Tieck direttamente dall'idealismo soggettivo del Fichte; ma deriva in fondo da tutto il movimento idealistico e romantico tedesco post-Kantiano. L'Io, sola realtà vera, spiegava Hegel, può sorridere della vana parvenza dell'universo: come la pone, può anche annullarla; può non prender sul serio le proprie creazioni. Onde l'ironia: cioè quella forza — secondo il Tieck — che permette al poeta di dominar la materia che tratta; materia che si riduce per essa — secondo Federico Schlegel — a una perpetua parodia, a una farsa trascendentale.
Trascendentale più d'un po', osserveremo noi, questa concezione dell'ironia: nè, del resto, se consideriamo per poco donde ci viene, poteva essere altrimenti. Tuttavia essa ha, o può avere, almeno in un certo senso, qualche parentela col vero umorismo, più stretta certamente che non l'ironia retorica, da cui, in fondo, tira tira, si potrebbe veder derivare. Qui, nell'ironia retorica, non bisogna prender sul serio quel che si dice; lì, nella romantica, si può non prender sul serio quel che si fa. L'ironia retorica sarebbe, rispetto alla romantica, come quella famosa rana della favola, la quale, trasportata nel macchinoso mondo dell'idealismo metafisico tedesco e abbottandosi qua più di vento che d'acqua, fosse riuscita ad assumere le invidiate proporzioni del bue. L'infingimento, quella tal contraddizione fittizia, di cui parla la retorica, è diventata qua, a furia di gonfiarsi, la vana parvenza dell'universo. Ora ecco: se l'umorismo consistesse tutto nella puntura di spillo che svescia quella rana abbottata, ironia e umorismo sarebbero press'a poco la stessa cosa. Ma l'umorismo, come vedremo, non è tutto in questa puntura di spillo.
Al solito, Federico Schlegel non fece altro qui che esagerare idee e teorie altrui: oltre all'idealismo soggettivo del Fichte, la famosa teoria del gioco esposta dallo Schiller nelle 27 lettere Ueber die aesthetische Erziehung des Menschen.
Il Fichte aveva voluto, in fondo, compire la dottrina kantiana del dovere: dicendo che l'universo è creato dallo spirito, dall'«Io», che è anche divinità, l'anima dell'essenza del mondo, che genera tutto ed è impersonale, che è volontà infaticabile, la quale racchiude in sè ragione, libertà, moralità; aveva voluto dimostrare il dovere dei singoli uomini di sottomettersi al volere della totalità e di tendere al culmine dell'armonia morale.
Ora, quest'«Io» del Fichte diventò l'«io» individuale, il piccolo «io» strambo del signor Federico Schlegel, che con un cannellino e un po' d'acqua saponata si mise allegramente a gonfiar bolle di sapone: vane parvenze d'universo, mondi; e a soffiarci su. E questo era il giuoco. Povero Schiller! Non poteva esser falsato in modo più indegno il suo Spieltrieb. Ma il signor Federico Schlegel prese alla lettera le parole: «der Mensch soll mit der Schöneit nur spielen, und er soll nur mit der Schöneit spielen. Denn, um es endlich auf einmal herauszusagen, der Mensch spielt nur, wo er in voller Bedeutung des Worts Mensch ist, und er ist nur da ganz Mensch, wo er spielt»,[5] e disse che per il poeta l'ironia consiste nel non fondersi mai del tutto con l'opera propria, nel non perdere, neppure nel momento del patetico, la coscienza della irrealtà delle sue creazioni, nel non essere lo zimbello dei fantasmi da lui stesso evocati, nel sorridere del lettore che si lascerà prendere al giuoco e anche di sè stesso che la propria vita consacra a giocare.[6]
Intesa in questo senso l'ironia, ognun vede come a torto essa venga attribuita a certi scrittori, come ad esempio, al nostro Manzoni, che della realtà oggettiva, della verità storica si fece una vera e propria fissazione, fino a condannare il suo stesso capolavoro. Nè d'altra parte si può attribuire al Manzoni quell'altra ironia, la retorica, giacchè nessuna contradizione fittizia si trova mai in lui tra quel che dice e quel che vuole sia inteso, contradizione frutto di sdegno. Il Manzoni non si sdegna mai della realtà in contrasto col suo ideale: per compassione transige qua e là e spesso indulge, rappresentando ogni volta minutamente, in forma viva, le ragioni del suo transigere e del suo indulgere: il che, come vedremo, è proprio dell'umorismo.
La sostituzione di ironismo, ironista a umorismo, umorista non sarebbe quindi legittima. Dall'ironia, anche quando sia usata a fin di bene, non si sa disgiungere l'idea di un che di beffardo e di mordace. Ora, beffardi e mordaci possono essere anche scrittori indubbiamente umoristici, ma il loro umorismo non consisterà già in questa beffa mordace.
È pur vero però che a una parola si può per comune accordo alterare il significato. Tante parole che noi adoperiamo adesso in un senso, ne avevano un altro in antico. E se alla parola umorismo, come abbiamo veduto, s'è già veramente alterato il senso, non ci sarebbe in fondo nulla di male se — per determinare, per significare senza equivoco la cosa — venisse adoperata un'altra parola.
Prima di entrare a parlar dell'essenza, dei caratteri e della materia dell'umorismo, dobbiamo sgomberarci il terreno di tre altre questioni preliminari: 1) se l'umorismo sia fenomeno letterario esclusivamente moderno; 2) se esotico per noi; 3) se specialmente nordico.
Queste tre questioni si ricollegano strettamente con quella più vasta e complessa della differenza dell'arte moderna dall'arte antica, lungamente agitata durante la lotta tra classicismo e romanticismo considerato dalle genti anglo-germaniche come una rivalsa contro il classicismo delle genti latine.
Vedremo in fatti ripresi nelle varie dispute su l'umorismo tutti gli argomenti della critica romantica, a cominciare da quelli de lo Schiller, il quale, col saggio famoso Ueber naïve und sentimentalische Dichtung, fu, a dire del Goethe[7] il fondatore di tutta l'estetica moderna.
Questi argomenti sono ben noti: il subiettivismo del poeta speculativo-sentimentale, rappresentante dell'arte moderna, in contrapposto con l'obbiettivismo del poeta istintivo o ingenuo, rappresentante dell'arte antica; il contrasto tra l'ideale e il reale; la serenità marmorea, l'equilibrio dignitoso, la bellezza esteriore dell'arte antica contro l'esaltazione dei sentimenti, il vago, l'infinito, l'indeterminato delle aspirazioni, le melanconie, la nostalgia, la bellezza interiore dell'arte moderna; e da un canto le bassure del verismo della poesia ingenua, e dall'altro le nebbie dell'astrazione e il capogiro intellettuale della poesia sentimentale;[8] l'azione del cristianesimo; l'elemento filosofico; l'incoerenza dell'arte moderna opposta all'armonia della poesia greca; le particolarità singole di fronte alle tipificazioni classiche; la ragione che s'interessa del valore filosofico del contenuto più che della vaghezza della forma esteriore; il sentimento profondo di un'interna disunione, di una doppia natura dell'uomo moderno, ecc. ecc.
Per darne qualche prova, citeremo ciò che scriveva il Nencioni in quel suo studio su L'Umorismo e gli umoristi, di cui abbiamo già fatto parola: «L'antichità, nel suo felice equilibrio dei sensi e dei sentimenti, guardò con calma statuaria anche nelle tragiche profondità del destino. L'anima umana era sana e giovine allora, nè il cuore e la intelligenza erano stati tormentati da trenta secoli di precetti e di sistemi, di dolori e di dubbi. Nessuna penosa dottrina, nessuna crisi interiore aveva alterato la serena armonia della vita e del temperamento umano. Ma il tempo e il cristianesimo hanno insegnato all'uomo moderno a contemplare l'infinito, a paragonarlo con l'effimero e doloroso soffio della vita presente. Il nostro organismo è continuamente eccitato e sovreccitato; e secolari dolori hanno umanizzato il nostro cuore. Noi guardiamo nell'anima umana, e nella natura con una simpatia più penetrante, e vi troviamo delle arcane relazioni e un'intima poesia ignote all'antichità... Il riso d'artista e la comica fantasia di Aristofane, alcuni dialoghi di Luciano, sono eccezioni. L'antichità, non ebbe, nè poteva avere, letteratura umoristica... Si direbbe che questa sia la caratteristica delle letterature anglo-germaniche. Il cielo crepuscolare e l'umido suolo del Nord sembrano esser più acconci a nutrire la delicata e strana pianta dell'umorismo.»
Concedeva però il Nencioni che «anche sotto il cielo azzurro e nella vita facile delle razze latine» l'umorismo «ha talora fiorito, e due o tre volte in modo unico, meraviglioso». E parlava infatti del Rabelais e del Cervantes, e anche dell'umorismo «realista, e vivente» di Carlo Bini, e diceva il Don Abbondio del Manzoni una creazione umoristica di prim'ordine.
Più preciso nella negazione fu Giorgio Arcoleo[9] il quale, pur ammettendo che la nota dell'umorismo, speciale della letteratura moderna, non manchi di legami col mondo antico, e pur citando quell'insegnamento di Socrate che dice: «Una è l'origine dell'allegria e della tristezza: nei contrapposti un'idea non si conosce che per la sua contraria: della stessa materia si forma il socco e il coturno», soggiungeva: «Questo lo intelletto greco pensava: ma l'Arte non potea esprimerlo: la percezione dei contrasti rimaneva nel campo astratto, perchè diversa era la vita. La Teogonia avvolgeva l'anima nel mito; l'Epopea i fatti umani nella leggenda; la Politica le forze individuali nella suprema legge dello Stato. L'Antichità costrinse serenamente le forme nell'armonia del finito: vide il Ciclope o lo Gnomo, le Grazie o le Parche. Come la vita avea liberi o servi, onnipotenti o impotenti, così la scienza ebbe sorrisi o pianto: Eraclito o Democrito; e la letteratura, ebbe tragedie o commedie. Tutt'al più il contrasto dalla sfera dell'intelletto passò nell'altra della immaginazione, si tramutò in fantasma, e allora Aristofane fece la satira dei sofisti, Luciano degli Dei. Ma se il Paganesimo si era obliato nella magnificenza delle forme e della natura, il Medio Evo si tormentò nei dubbii e nelle angosce dello spirito. Fu triste, ebbe sogni agitati da spettri: la potenza baronale finiva spesso nei conventi, la bellezza nei chiostri. La corruttela romana non seduceva neppure come ricordo: la dissoluzione del grande Impero aveva inoculato negli animi l'idea dell'impotenza. A rovescio del mondo antico: questo rimpiccolì nelle forme plastiche le energie soprannaturali; il Medio Evo le allargò nell'infinito: e, compreso dallo spazio e dal tempo, lo spirito umano si annullò con braminica rassegnazione. Tale depressione soffocò ogni spirito d'iniziativa e di ricerca. Nelle credenze sovraneggiò il dogma, nella scienza l'erudizione, nell'arte la copia, nel costume la disciplina. L'umanità nel suo periodo di decadenza romana avea sostenuto i dolori della vita coll'indifferenza dello stoico: ne avea cercato i piaceri con la sensualità dell'epicureo: nel Medio Evo volle sottrarsi alla vita con l'estasi: donde una nuova mitologia cristiana, popolata di rimorsi, di paure, di preghiere. Il pensiero seguiva la fede: il manuale di logica era un'appendice del catechismo. In tali condizioni dominava il terrore, si aspettava il finimondo... Finalmente nella materia come nello spirito sorge un nuovo mondo. È un periodo di esultanza e al tempo stesso di mestizia e di riflessione: ma si rivela con due tendenze spiccate, l'una presso le razze germaniche, l'altra presso le latine: lì il libero esame o la Riforma: qui il culto della bellezza e della forza, la Rinascenza. I contrasti si moltiplicano nelle istituzioni, nella vita privata, nei costumi, nelle leggi, nella letteratura... Non è antitesi percepita dall'intelletto o intravista dalla fantasia; non è lotta contro la natura umana, come nell'età di mezzo; è dissonanza che stride in tutte le sfere del pensiero e dell'azione: è il dissidio tra lo spirito nuovo e le forme vecchie. In tale situazione il trionfo dell'uno o dell'altra ha influenza decisiva sulle istituzioni, sulla scienza, sull'arte. Qui appunto va notata la differenza dei risultati nelle razze germaniche e nelle latine: differenza che spiega in gran parte, perchè l'umorismo ebbe tanto sviluppo presso le prime, e riuscì quasi nullo presso le seconde».
Ora, si dovrebbe innanzi tutto intendere che, prendendo in esame un'eccezionale e speciosissima espressione d'arte come l'umoristica, queste rapide sintesi, queste ideali ricostruzioni storiche, non sono ammissibili.
Come nella formazione d'una leggenda l'immaginazione collettiva rigetta tutti gli elementi, i tratti, i caratteri discordanti con la natura ideale d'un dato fatto o d'un dato personaggio ed evoca invece e combina tutte le immagini convenienti; così, nel tracciare in breve la sintesi d'una data epoca, inevitabilmente noi siamo indotti a non tener conto di tanti particolari in contradizione, delle singole espressioni. Non possiamo prestare orecchio alle voci che protestano in mezzo a un coro soverchiante. Nella lontananza, si sa, certi colori accesi, sparsi qua e là, si attenuano, si smorzano, si fondono nella tinta generale, azzurra o grigia, del paesaggio. Perchè questi colori risaltino, riassumendo intera la loro individualità, bisogna che noi ci avviciniamo: riconosceremo allora come e quanto ci avesse ingannato la lontananza.
Seguendo le teorie del Taine, considerando i fenomeni morali come soggetti anch'essi al determinismo al pari dei fenomeni fisici, la storia umana come parte della naturale, l'opera d'arte come il prodotto di determinati fattori e di determinate leggi, e cioè di quella de le dipendenze e di quella de le condizioni, con le regole che ne derivano: del carattere essenziale o della facoltà dominante, dalla prima; delle forze primordiali, razza, ambiente, momento, dalla seconda; e vedendo esclusivamente nelle espressioni artistiche gli effetti necessarii di forze naturali e sociali; non penetreremo mai nell'intimità dell'arte, ci rappresenteremo per forza tutte le manifestazioni d'un dato tempo come solidali tra loro e complementari, per modo che ciascuna necessiti le altre e tutte insieme rispecchino quelle qualità che, secondo il nostro concetto o la nostra idea sommaria, le ha raccolte e prodotte; non già la realtà infinitamente varia e continuamente mutabile, e i singoli sentimenti di essa, varii infinitamente e continuamente mutabili anch'essi. Dopo aver considerato il cielo, il clima, il sole, la società, i costumi, i pregiudizii, ecc., non dobbiamo forse appuntar lo sguardo sui singoli individui e domandarci che cosa siano divenuti in ciascuno di essi questi elementi, secondo lo speciale organamento psichico, la combinazione originaria, unica, che costituisce questo o quell'individuo? Dove uno s'abbandona, l'altro si rivolta; dove uno piange, l'altro ride; e ci può esser sempre qualcuno che ride e piange a un tempo. Del mondo che lo circonda, l'uomo, in questo o in quel tempo, non vede se non ciò che lo interessa: fin dall'infanzia, senza neppur sospettarlo, egli fa una scelta d'elementi e li accetta e accoglie in sè; e questi elementi, più tardi, sotto l'azione del sentimento, s'agiteranno per combinarsi nei modi più svariati.
«L'Antichità costrinse serenamente le forme nell'armonia del finito». Ecco una sintesi. Tutta l'antichità? Nessun antico escluso? Il Ciclope o lo Gnomo, le Grazie o le Parche? E non anche le Sirene, metà donne, metà pesce? «La vita non aveva che o liberi o servi». E non poteva qualche libero sentirsi servo e qualche servo sentirsi libero entro di sè? Non cita lo stesso Arcoleo Diogene che «chiude il mondo nella botte, e non accetta la grandezza d'Alessandro, se gli toglie la vista del sole?». E che vuol dire che l'intelletto greco poteva percepire il contrasto e l'Arte non poteva esprimerlo perchè la vita era diversa? Com'era la vita? O tutta pianto o tutta riso? E come faceva allora l'intelletto a cogliere il contrasto? Ogni astrazione bisogna che abbia per forza radice in un fatto concreto. C'era dunque il pianto e il riso, non il pianto o il riso; e se l'intelletto poteva cogliere il contrasto, perchè non avrebbe potuto esprimerlo l'arte? «Tutt'al più — dice l'Arcoleo — il contrasto dalla sfera dell'intelletto passò nell'altra dell'immaginazione, si tramutò in fantasma, e allora Aristofane fece la satira dei sofisti, e Luciano degli Dei». Che vuol dire quel tutt'al più? Se il contrasto dalla sfera dell'intelletto passò in quella de l'imaginazione e si tramutò in fantasma, vuol dire che divenne arte. E allora? Lasciamo andare Aristofane che, come vedremo, non ha nulla da fare con l'umorismo; ma Luciano non è soltanto autore del dialogo degli Dei. E andiamo avanti.
«Il mondo antico rimpiccolì nelle forme plastiche le energie soprannaturali». Ecco un'altra sintesi. Tutto il mondo antico e tutte le energie soprannaturali? anche il fato? E tutta l'Italia del rinascimento «rimase nei suoi gusti pagana, serena; non ebbe curiosità, non intimità?» Vedremo. Parliamo d'umorismo e delle espressioni artistiche di esso, espressioni eccezionali e speciosissime, ripeto: ci basterebbe un umorista solo; ne troveremo parecchi, in ogni tempo, in ogni luogo; e diremo la ragione per cui i nostri segnatamente ci debba parere che non siano tali.
Tutte le partizioni sono arbitrarie. Poco dopo la pubblicazione del saggio del Nencioni, che negava — come abbiamo veduto — all'antichità una letteratura umoristica, non solo, ma anche la possibilità di averla, sorsero da noi prima il Fraccaroli, con uno studio intitolato appunto Per gli Umoristi dell'Antichità[10], poi il Bonghi[11], poi altri ancora a rivelare nelle letterature classiche e specialmente nella greca, assai più umorismo, che non avesse saputo vedere il Nencioni.
Quel felice equilibrio, quella calma statuaria e l'anima sana e giovine e la serena armonia della vita e del temperamento degli antichi, come la natura rappresentata da questi con precisione e con fedeltà, senza melanconia nè nostalgia, sono vecchi cavalli di battaglia della critica romantica. Già lo stesso Schiller, autore primo della partizione, dovette riconoscere che Euripide, Orazio, Properzio, Virgilio non si erano fatti un concetto ingenuo della natura e quindi concludere che vi erano anime sentimentali presso gli antichi e anime greche, presso i moderni, e cancellare così, come impossibile a mantenere, la linea divisoria tra ispirazione antica e ispirazione moderna.
Su le tracce del Biese, che scrisse su l'evoluzione del sentimento della natura presso i greci[12], il Basch dimostrò agevolmente quanto di sentimentale vi fosse nella poesia e nel pensiero dei Greci, nella mitologia primitiva, nelle metamorfosi spesso grottesche delle divinità, nell'utopia nostalgica dell'età dell'oro, nella raffinata melanconia dei lirici e degli elegiaci in ispecie, che rappresentarono la natura non solamente «comme cadre des sentiments de l'âme, mais encore comme ayant des profondes et mysterieuses affinités avec ses sentiments». Anche lo Herder, autore della partizione tra Natur-poesie e Kunst-poesie, non dava ad essa un senso rigorosamente cronologico. E il Richter negava che il cristianesimo fosse causa e origine esclusiva della nuova poesia, giacchè i poemi scandinavi dell'Edda e quelli dell'India eran nati fuori del misticismo cristiano; e, ripetendo l'osservazione dello Herder che «nessun poeta resta fedele ad un'ispirazione sentimentale unica», chiamava romantici non già gli autori, ma quelle fra le opere ch'erano d'ispirazione sentimentale. Arrigo Heine diceva nella Germania che si era caduto in un deplorevole errore chiamando plastica l'arte classica, come se ogni arte, antica o moderna, volendo esser arte, non dovesse per forza esser plastica nella sua forma esteriore. Ed è inutile ricordare qui a quali strette si trovò Victor Hugo, volendo additare come principio dell'arte moderna la famosa teoria del grottesco, di fronte a Vulcano, a Polifemo, a Sileno, ai tritoni, ai satiri, ai ciclopi, alle sirene, alle furie, alle Parche, alle arpie, al Tersite omerico, alle dramatis personae delle commedie aristofanesche.