Così parlò Zarathustra

Friedrich Wilhelm Nietzsche


INTRODUZIONE: L'ORIGINE DI «COSÌ PARLÒ ZARATHUSTRA»

«Zarathustra» è l'opera personale di mio fratello, storia delle sue intime esperienze, delle sue amicizie, del suo ideale, dei suoi rapimenti, delle sue delusioni e delle sue sofferenze più amare. Ma sopratutto si delinea qui, splendente, l'imagine della sua più alta speranza, del suo fine più determinato. La figura di Zarathustra apparve fin dai suoi primi anni a mio fratello, il quale mi scrisse una volta d'averla già veduta in sogno quand'era bambino. A questa forma di sogno diede, secondo i tempi, nomi differenti; «ma alla fine – è detto in una annotazione posteriore – io diedi la preferenza a un persiano. I persiani hanno, prima, pensato la storia in modo vasto e completo. Un susseguirsi di evoluzioni, ognuna presieduta da un profeta. Ogni profeta ha il suo Hazar ed il suo regno di mille anni ».

Le concezioni generali di Zarathustra sono, come la figura dell'annunziatore, di origine molto antica. Chi studî attentamente l'opera postuma del 1869-1882 troverà in embrione il ciclo di idee di Zarathustra, come per esempio l'ideale del superuomo che già si rileva in tutti gli scritti dell'autore dall'anno 1873 al 1875. Rimando al primo e secondo volume di questa edizione e cito soltanto i seguenti punti da Noi filologi: «Come si può glorificare e lodare un intero popolo! Sono i solitari, anche presso i greci».

«I greci sono interessanti e importantissimi perchè hanno una moltitudine di grandi solitari. Come fu possibile ciò? Bisogna studiarlo.

«M'interessa unicamente la posizione di un popolo rispetto all'educazione dei singoli; e quella dei greci è certamente molto favorevole allo sviluppo dei singoli, non per la bontà del popolo, ma per la lotta dei cattivi istinti.

«Si può attraverso felici invenzioni educare il grande individuo in modo del tutto differente e più alto di quello nel quale egli fu educato finora attraverso il caso. Vi sono ancora speranze: allevamento dell'uomo importante». (Vol. II, Considerazioni inattuali).

Nel pensiero dell'allevamento del superuomo appare l'idea giovanile di Nietzsche che «lo scopo dell'umanità è nei suoi più alti esemplari» (oppure come egli dice ancor più chiaramente in Schopenhauer come educatore: «l'umanità deve continuamente lavorare per educare grandi, singoli uomini – e questo e non altro è il suo problema»). Ma gli ideali posti là quali i maggiori non sono più, ora, indicati come i tipi più alti dell'umanità. No, su questo futuro ideale di una futura umanità, il superuomo, il poeta ha ancora disteso il velo del divenire. Chi può sapere fino a quale splendore ed a quale altezza si eleverà! Il poeta esclama perciò, con passione in Zarathustra, dopo aver esaminato il nostro maggiore concetto ideale, quello del Redentore, secondo il nuovo valore della misura:

«Mai ancora ci fu un superuomo. Li vidi nudi entrambi, l'uomo più grande e l'uomo più piccolo: – «S'assomigliano ancora troppo l'un l'altro. In verità, anche il più grande lo trovai – troppo umano!»

«Allevamento del superuomo», questa espressione fu più volte fraintesa. La parola «allevamento» significa: trasformazione attraverso nuove e più alte valutazioni, che devono regnare sull'umanità quali condottieri ed educatori del modo d'agire e della concezione della vita. Il pensiero del superuomo è sopratutto da comprendersi giustamente soltanto in connessione con gli altri insegnamenti dell'autore di Zarathustra: l'ordinamento gerarchico, la volontà di potenza, e la trasmutazione di tutti i valori. Egli suppone che, per il risentimento di un cristianesimo debole e falsato, tutto ciò che era bello, forte, superbo, potente – come le virtù provenienti dalla forza – sia stato proscritto e bandito e che perciò siano diminuite di molto le forze che promuovono e innalzano la vita. Ma ora una nuova tavola di valori dev'essere posta sopra l'umanità, cioè il forte, potente, magnifico uomo fino al suo punto più eccelso, il superuomo, che ci è adesso presentato con travolgente passione quale scopo della nostra vita, della nostra volontà e della nostra speranza. E come l'antico modo di valutare, che pregiava sommi soltanto i deboli, i sofferenti, i caratteri moderati e soccombenti, era necessariamente seguito da una umanità debole, sofferente, moderna; così il nuovo opposto modo di valutare (che si compendia nella sentenza: tutto ciò che nasce dalla forza è buono, ciò che nasce dalla debolezza è cattivo) deve presentare un gagliardo tipo sano, vigoroso, contento di vivere, e una apoteosi della vita.

Ma questo tipo non è un'immagine, la speranza di un avvenire nebuloso e indistinto, lontano ancora migliaia d'anni, non è una nuova specie darwinistica intorno alla quale nulla si può sapere e sulla quale pesa quasi una meschina ridicolaggine, ma dev'essere una possibilità raggiungibile dall'umanità presente con tutte le sue forze spirituali e corporali, e raggiunta attraverso le nuove valutazioni.

L'autore di Zarathustra ricorda quel terribile esempio dell'inversione di tutti i valori: attraverso il cristianesimo per il quale l'intero mondo greco divinizzato, l'indirizzo greco del pensiero e la gagliarda romanità furono, in un tempo relativamente breve, quasi distrutti o trasformati. Non si potrebbe ora richiamare questa rinnovata misura greco-romana dei valori, specie di inversione, fatta più fine e profonda da una bimillenaria scuola di idee cristiane, e richiamarla in un tempo per noi misurabile, fino a che sorga quel magnifico tipo umano che dev'essere la nostra nuova fede, la nostra nuova speranza, e che noi siamo chiamati a preparare attraverso Zarathustra?

L'autore adopera nelle sue annotazioni private la parola «superuomo» (per lo più sempre al singolare) come designazione di «un tipo perfetto», in opposizione all'«uomo moderno»; ma indica sopratutto Zarathustra stesso come tipo del superuomo. Nell'Ecce Homo egli s'affatica per darci chiara un'idea del precursore e delle condizioni necessarie a questo tipo che ci sovrasta, mentre nella Gaia scienza dice: «Per comprendere questo tipo si deve anzitutto presentare chiara la sua presupposizione fisiologica: questa è quella che io chiamo grande salute. Io non so illuminare meglio nè più personalmente questo concetto di quanto abbia già fatto in uno dei paragrafi di chiusa (af. 382) del quinto libro di «Gaia Scienza».

«Noi gente nuova, senza nome, mal comprensibili – dice il testo – noi esseri di un avvenire ancora ignorato, bisognamo, per un nuovo scopo, anche di un nuovo mezzo, cioè di una nuova salute, più forte, accorta, tenace, ardita, più balda di quanto siano state le saluti finora. Colui l'anima del quale ha sete di esperimentare l'intero cerchio dei valori e delle meraviglie a noi note e di navigare intorno a tutte le coste di questo ideale «mare interno», colui il quale dalle avventure della propria esperienza vuol sapere qual'è il coraggio di un conquistatore e di uno scopritore dell'ideale, come di un artista, di un santo, di un legislatore, di un savio, di un dotto, di un pio, di un asceta di vecchio stile: questi ha bisogno anzitutto della grande salute – tale che non solo si possiede, ma che pure continuamente si conquista e si deve conquistare, perchè e sempre di nuovo la si dona e la si deve donare! – E ora, dopo che fummo così a lungo in cammino, noi argonauti dell'ideale, più coraggiosi di quanto non sia ragionevole e abbastanza spesso naufragati e in cattive condizioni, pericolosamente sani, sempre di nuovo sani, ci sembra come se, per ricompensa, avessimo un'altra inesplorata terra dinanzi a noi, una terra di cui nessuno vide mai i confini, un al di là di tutti i paesi e i cantucci dell'ideale avuti finora, un mondo, così esuberante di bello, di straniero, di cose misteriose, temibili e divine, che la nostra curiosità, come il nostro desiderio di possesso, sono trasportati fuori di sè, – ah, come oramai nulla più ci sazia!

«Come potremmo noi, dopo tale sguardo, con tale fame ardente nel cervello e nella coscienza, accontentarci ancora dell'uomo attuale? Male abbastanza: ma è inevitabile che noi guardiamo le sue speranze e le sue mete più degne con una serietà difficile a mantenere, anzi, forse neppur le guardiamo. Abbiamo dinanzi un altro ideale, un meraviglioso, tentatore ideale pieno di pericoli, al quale non potremmo persuadere alcuno, perchè non ne diamo ad alcuno così facilmente il diritto: l'ideale di uno spirito che ingenuamente, cioè involontariamente e per esuberanza e forza impetuosa, si trastulli con tutto ciò che si chiamò finora santo, buono, intangibile, divino; per il quale la cosa più alta in che il popolo trova a buon prezzo la misura del proprio valore, cioè pericolo, decadenza, umiliazione, o almeno sollievo, cecità, significassero temporanea dimenticanza di sè; l'ideale di umani e sovrumani benessere e benevolenza, che apparirà spesso non umano; per es., come quando si porrà accanto all'intera serietà terrena che si ebbe finora, accanto alle solennità di atteggiamento, alle parole, al suono, alla morale, al compito come alla loro involontaria e visibile parodia – e con esso, ciò nonostante, forse si erge la gran serietà, è posto infine il proprio segno interrogatore, si evolve il destino di un'anima, la lancetta si muove, la tragedia comincia… ».

Sebbene la figura di Zarathustra e una gran parte dei pensieri principali di quest'opera si possano trovare molto prima nei sogni e negli scritti dell'autore, «Così parlò Zarathustra» nacque però a Sils-Maria nel 1881, e ciò che condusse Nietzsche ad esprimere con parole poetiche il nuovo ciclo di idee fu il pensiero dell'eterno ritorno.

Nell'autunno 1888 mio fratello scrive appunto nei suoi schizzi autobiografici detti «Ecce Homo» come esso gli sia apparso alla mente: «La concezione fondamentale dell'opera, del pensiero dell'eterno ritorno, questa più alta formula di affermazione che possa essere raggiunta – appartiene all'agosto dell'anno 1881: è gettata su un foglio con la menzione: «6000 piedi al di là dell'uomo e del tempo. Io andai quel giorno al lago di Silvapiana tra i boschi, e mi fermai presso un poderoso, piramidale tronco. Mi venne allora questo pensiero. Se, da quel giorno, io risalgo un paio di mesi indietro, trovo, come indizio, un'improvvisa e fermissima trasformazione del mio gusto sopratutto nella musica. Si può forse considerare l'intero Zarathustra come opera musicale; fu sicuramente come una rinascita artistica, una premessa. In un piccolo lago alpino presso Vicenza, ove trascorsi la primavera del 1881, scopersi insieme col mio maestro ed amico Peter Gast, anch'esso un «risuscitato», che la fenice musica ci volava dinanzi con piume leggere e splendenti, come mai per il passato».

Tra il principio e la fine agosto 1881 v'è la decisione di lasciar annunziare dalla bocca di Zarathustra, con parole di inno e di ditirambo, la dottrina dell'eterno ritorno. Troviamo infatti, fra le sue carte, un foglio scritto in quei giorni che ci pone chiaramente sotto gli occhi il primo abbozzo di «Così parlò Zarathustra».

«Meriggio ed eternità
«Cenno di una nuova vita.»

Sotto sta scritto:

«Zarathustra, nato presso il lago di Urmi, abbandonò verso il trentesimo anno la sua patria, andò nella provincia di Aria e compose nei dieci anni della sua solitudine tra i monti il Zend-Avesta».

«Il sole della conoscenza sta di nuovo al suo meriggio: e intorno v'è il serpente dell'eternità nella sua luce – è l'ora vostra, voi fratelli del meriggio».

Qui ci sono le seguenti note:

«Per il progetto di un nuovo modo di vivere.

Primo libro: Nello stile della prima frase della nona sinfonia. Chaos sive natura: «Del disumanamento della natura». Prometeo viene incatenato sul Caucaso. Scritto con la crudeltà del κρἁτος, «della potenza».

Secondo libro: Fuggitivo - scettico - mefistofelico. «Della incorporazione delle esperienze». Cognizione - errore che diviene organico ed organizzante.

Terzo libro: Il più intimo e il più etereo che fosse mai scritto: «Dell'ultima felicità del solitario» - il quale da appartenente ad altri è divenuto il «padrone di se stesso» nel grado più alto: il perfetto ego: solo questo ego possiede amore; ai primitivi gradini dove non è raggiunta la maggior solitudine e il maggior dominio di sè, v'è qualcosa che differisce dall'amore.

Quarto libro: Gran-ditirambico: «Annulus aeternitatis». Brama di vivere tutto ancora una volta, ed eterne volte. La perenne trasformazione: devi penetrare in un breve spazio di tempo in molti individui. Il mezzo è una continua lotta.

Sils Maria, 26 agosto 1881».

In quell'estate del 1881, mio fratello si sentì nuovamente, dopo molti anni, più debole e peggio di un convalescente, e nella piena sensazione della sua precedente e ottima salute non nacque soltanto la «Gaia scienza», – che per la sua intonazione dev'essere considerata come un annunzio di Zarathustra, bensì la stessa opera di Zarathustra. Un destino crudele volle ora che, appunto al tempo della sua guarigione, gli sopraggiunsero molte dolorose esperienze personali. Egli sofferse profonde disillusioni nell'amicizia che teneva così alta e sacra, e per la prima volta sentì, in tutto il suo orrore, quella solitudine a cui è condannato ogni grande. L'abbandono è qualcosa che differisce interamente da una solitudine volontaria e beatificante. Come anelò allora al perfetto amico che lo comprendeva pienamente, al quale poteva dir tutto, e che credeva aver trovato fin dalla prima giovinezza e nei diversi periodi della sua vita! Ma ora che il suo sentiero diveniva sempre più scoseso e pericoloso, non trovava più alcuno che potesse andar con lui; così egli si creò nella figura ideale del filosofo regale il perfetto amico, e fece annunziare da lui i suoi scopi più alti e più sacri.

Chiedere se, senza le amare esperienze del tempo d'intervallo, egli avrebbe portato a compimento il primo abbozzo di «Così parlò Zarathustra» nell'estate del 1881, e vi avrebbero dominato quelle tonalità di gioia che conosciamo dallo schema, è adesso una domanda oziosa. Ma forse possiamo dire con Meister Eckardt, anche nel rispetto di Zarathustra: «L'animale più svelto che vi conduce alla perfezione è il dolore».

Mio fratello scrive, circa il sorgere della prima parte di Zarathustra: «L'inverno 1882-1883 vissi in quell'ameno quieto golfo di Rapallo, non lungi da Genova, che s'interna tra Chiavari e le alture di Portofino. La mia salute non era ottima; l'inverno era freddo e oltre misura piovoso; l'albergo piccolo dava immediatamente sul mare, così che di notte non si poteva dormire; ed avevo quasi in tutto l'opposto di ciò che sarebbe stato desiderabile. Malgrado questo, e quasi a dimostrazione della mia frase che ogni cosa decisiva accade «non ostante tutto» fu in quell'inverno e in quelle condizioni sfavorevoli che nacque il mio Zarathustra. La mattina salivo verso il sud prendendo la strada magnifica che mena a Zoagli, costeggiata dai pini e che domina il mare lontano; il pomeriggio, appena lo consentiva la mia salute, facevo il giro del golfo da Santa Margherita sino a Portofino. Questa località e questo paesaggio m'è ancor più caro per il grande amore portatogli dall'imperatore Federico III; nell'autunno circa del 1886 io ero di nuovo su quella spiaggia quand'egli visitò per l'ultima volta quel piccolo dimenticato regno di felicità. Mi venne così in mente, per queste ragioni, l'intero primo Zarathustra, sopratutto Zarathustra stesso, quale tipo; o piuttosto egli stesso m'afferrò… ».

Questa prima parte di «Zarathustra» fu scritta in appena dieci giorni, dal principio fin verso la metà del febbraio 1883. «La parte di chiusa fu appunto ultimata nell'ora sacra in cui morì a Venezia R. Wagner».

Mio fratello indicò quel tempo, ad eccezione dei dieci giorni nei quali scrisse «Zarathustra», come il più cattivo per la sua salute; ma non intende con ciò le sue precedenti condizioni di salute, bensì una forte influenza che lo colpì a Santa Margherita e lo oppresse ancora per molte settimane a Genova. Ma intendeva sopratutto lo stato dell'anima sua, quell'indescrivibile abbandono per il quale aveva trovato parole di così lacerante dolore in Zarathustra.

Anche l'accoglienza che trovò la prima parte di Zarathustra fra conoscenti ed amici fu molto opprimente, giacchè non si sentì compreso da coloro ai quali la diede. «Per molte cose che avevo detto non trovai alcuno maturo; Zarathustra è una dimostrazione che si può parlare con la maggior chiarezza senza essere intesi da nessuno». Mio fratello fu grandemente scoraggiato da questa incomprensione; e siccome al medesimo tempo si disabituava con gran forza di volontà al sonnifero cloralio, ch'egli aveva usato al tempo dell'influenza, la primavera seguente, (1883), che passò in Roma, fu piuttosto triste. Egli scrive intorno a ciò: «Seguì una triste primavera a Roma, dove conducevo la mia vita, che non era facile. In fondo mi urtava quel luogo indecoroso per il poeta di Zarathustra, che non avevo scelto fra gli altri di mia volontà; volevo andare ad Aquila, l'opposto di Roma, fondata appunto per inimicizia a Roma come io fonderò un giorno un luogo in ricordo di un ateo e nemico comme il faut della chiesa, mio vicino parente, il grande Hohenstaufen – l'imperatore Federico II. Ma fu un destino per tutti: dovetti tornare indietro. Infine mi acquetai in piazza Barberini, dopo d'essermi stancato nell'affannosa ricerca di una contrada anticristiana. Temo d'aver chiesto una volta, per evitare cattivi odori, se ci fosse stata una tranquilla camera per un filosofo nello stesso palazzo del Quirinale. Sopra una loggia, in alto, su questa piazza dalla quale si vede la città e si ode il mormorio della fontana; fu composta quella canzone così solitaria come non era ancor mai stata pensata, del canto notturno; a quel tempo avevo sempre nella fantasia una melodia di tristezza indicibile di cui ritrovavo il ritornello nelle parole: morto d'immortalità».

Quella primavera noi restammo un po' troppo a Roma; e sotto l'influsso del tempo afoso e opprimente ch'era sopraggiunto allora, e dello scoraggiamento cui accennai, mio fratello decise di non scrivere più affatto, e ad ogni modo di non continuar Zarathustra, sebbene io mi fossi offerta di togliergli ogni pena per la stampa e l'editore. Ma quando, il 17 giugno, ritornammo in Isvizzera ed egli visse di nuovo a contatto della familiare salubre aria dei monti, si risvegliò allora tutta la sua gioconda volontà di creazione, ed egli mi scrisse circa un futuro manoscritto in preparazione: «Ho affittato qui per tre mesi: in realtà sono il più gran pazzo se mi lascio scoraggiare a cagione dell'aria italiana. Di quando in quando mi sorge il pensiero: che avviene dopo? Il mio «avvenire» è per me la cosa più oscura del mondo; ma siccome ho ancora molte cose da compiere, dovrei pensare solo ad esse come al mio avvenire e lasciare il resto a te e agli dèi».

La seconda parte di Zarathustra fu scritta tra il 26 giugno e il 6 luglio a Sils-Maria: «Tornato, l'estate, nel sacro luogo dove mi balenò alla mente la prima idea di Zarathustra, io trovai la seconda parte dell'opera. Dieci giorni furono sufficienti; non ne bisognai di più in nessun caso, nè per la prima nè per la terza o per l'ultima parte».

Egli parlò spesso dello stato di rapimento durante il quale scrisse Zarathustra, come fosse propriamente assalito da una folla di pensieri lungo le sue passeggiate girovaghe, e potesse solo prenderne, in fretta, alcuni appunti a lapis, nel suo taccuino; appunti che egli, ritornando, scriveva poi in inchiostro, fino a tarda notte. Egli mi dice in una lettera: «Tu non puoi farti facilmente un giusto concetto della veemenza di queste formazioni»; e descrive con entusiasmo appassionato, nel Ecce Homo (autunno 1883) l'incomparabile stato d'animo in cui fu creato Zarathustra:

«V'è qualcuno, alla fine del secolo XIX, che abbia un concetto chiaro di ciò che i poeti dei vecchi tempi chiamavano ispirazione? In caso contrario voglio descriverlo. Con un briciolo di superstizione si potrebbe infatti appena negare l'idea di essere soltanto incarnazione, strumento, medium di forze prepotenti. Il concetto di rivelazione nel senso che d'improvviso, con indicibile sicurezza e profondità, qualcosa si palesi, si faccia sentire, e agiti, e scuota, nel più profondo, descrive semplicemente la consistenza del fatto. Si sente – non si cerca; si prende, – non si chiede chi dia; un pensiero lampeggia imperioso senza indugio, – io non ho mai avuto possibilità di scelta. Un rapimento la cui tensione si risolve in una crisi di lagrime, e durante il quale il passo ora involontariamente freme, ora diviene lento; una perfetta estrinsecazione con la più distinta coscienza d'infiniti sottili brividi e tremiti fino alla punta dei piedi; una profondità di gioia nella quale ciò che v'è di più doloroso e di più cupo non agisce quale contrasto ma come una tinta, richiesta e necessaria, in una tale esuberanza di luce, un istinto di ritmiche condizioni teso sul grande spazio delle forme (la lunghezza, il bisogno di un ritmo più teso, è quasi la misura per la forza dell'ispirazione, una specie di compenso per la sua pressione e la sua tensione). Tutto accade, nel punto culminante, involontariamente, ma come in un uragano di sentimenti di libertà, di cose incondizionate, di potenza, di divinità. L'involontarietà delle imagini, delle similitudini è il fatto più meraviglioso; non si ha più concetto alcuno di ciò che sia imagine, similitudine, tutto si presenta come l'impressione più vicina, più giusta, più semplice. Sembra, in realtà, per ricordare una parola di Zarathustra, come se le stesse cose potessero essere similitudini: «Qui tutte le cose giungono carezzevoli alla tua parola e ti allettano, perchè vogliono cavalcar sul tuo dorso. Per questa similitudine tu cavalchi a quella verità. Qui ti si rivelano le parole di tutto l'essere e gli scrigni segreti delle parole; ogni esistenza vuol qui divenir parola, ogni divenire vuole imparare da te a parlare». Questa è la mia esperienza dell'ispirazione; io non dubito che si debbano risalire dei secoli per trovare qualcuno che mi possa dire: è pure la mia».

Nell'autunno 1883 mio fratello lasciò l'Engadina e venne per alcune settimane in Germania; l'inverno seguente 1883-1884, dopo alcune gite a Stresa, Genova e Spezia, soggiornò a Nizza, dove egli si sentì così bene a cagione del clima, che scrisse la terza parte di Zarathustra: «Durante l'inverno, sotto l'alcionico cielo di Nizza che contemplavo allora per la prima volta in vita mia, io concepii il terzo Zarathustra – e lo terminai. Soltanto un anno, calcolato per tutto il lavoro. Molti luoghi e molti promontori ignorati di Nizza furono consacrati in me da momenti indimenticabili; quella parte decisiva, che porta il titolo di «Delle tavole vecchie e delle nuove», fu pensata durante la faticosa salita dalla stazione ai meravigliosi nidi rocciosi moreschi di Eza. L'agilità dei muscoli era sempre maggiore in me quando fluiva più ricca la forza creatrice. Il corpo è entusiasta, lasciamo star l'anima… Mi si potè vedere spesso danzare; io potevo allora passeggiare sui monti per sette, otto ore, senza un indizio di stanchezza, dormivo bene, ridevo molto –, godevo di un vigore e di una pazienza perfetti».

Ognuna delle tre parti di Zarathustra nacque così dopo una preparazione più o meno lunga, come sopra accennai, in circa dieci giorni. Soltanto l'ultima parte fu composta con alcune interruzioni. I primi appunti furono scritti durante un comune soggiorno a Zurigo nel Settembre 1884; subito li seguì una prima elaborazione a Mentone nel Novembre 1884 e, dopo una pausa più lunga, il manoscritto fu terminato tra la fine di gennaio e la metà di febbraio del 1885, a Nizza. Mio fratello lo intitolò allora quarta ed ultima parte; ma già prima, della pubblicazione privata, e poco tempo dopo, mi scriveva di voler comporre una quinta ed una sesta parte, sulla qual cosa esistono tuttavia disposizioni. Questa parte quarta (nel cui manoscritto pronto per la stampa è la nota: «Per i miei amici soltanto, non per il pubblico») egli la considerava come alcunchè di interamente personale, e imponeva a quei pochi ai quali ne regalò un esemplare la più stretta segretezza. Egli pensò spesso se fosse il caso di pubblicare pur questa parte, ma credette di non poterlo fare senza mutarne in precedenza alcune parti. Ad ogni modo destinò i quaranta esemplari della quarta parte, stampati, dell'intero manoscritto, quale dono per «coloro che ne fossero, presso di lui, benemeriti». Sotto questo punto di vista egli ebbe occasione di regalare soltanto sette esemplari – tanto era allora solitario e incompreso.

Già al principio dell'origine di questa storia io ho addotto le ragioni che spinsero mio fratello a incorporare in un persiano la figura ideale del suo reale filosofo; ma perchè appunto debba essere Zarathustra quegli nella bocca del quale egli pose le sue nuove dottrine, ce lo dice egli stesso nelle seguenti parole: «Non mi si è chiesto, e si sarebbe dovuto chiedermelo, ciò che, appunto nella mia bocca, nella bocca del primo immoralista, significasse il nome di Zarathustra: giacchè ciò che stabilisce la spaventosa unicità di quel persiano nella storia è appunto il contrario. Zarathustra vide dapprima la vera ruota nel meccanismo delle cose, nella lotta del bene e del male – la traduzione della morale nella metafisica quale forza, causa, scopo in sè, è opera sua. Ma questa domanda sarebbe, in fondo, già la risposta. Zarathustra creò questo fatalissimo errore, la morale. Dev'essere, per conseguenza, anche il primo che lo riconosce. Non solo che abbia qui un'esperienza più lunga e maggiore di quanto ebbe mai un pensatore – l'intera storia è la confutazione sperimentale della frase del così detto «orientamento morale del mondo»: – ma il più importante è l'essere, Zarathustra, più verace di tutti i pensatori. La sua dottrina, ed essa soltanto, ha come più alta virtù la veracità – si oppone cioè alla viltà dell'«idealista», che fugge dinanzi alla realtà; Zarathustra ha più valore in corpo che non tutti i pensatori presi insieme. Dir la verità e tirar bene le frecce: questa è la virtù persiana. Mi si comprende… Il trionfo sulla morale a cagione della verità, il trionfo sul moralista nelle sue antitesi – in me: – questo significa nella mia bocca il nome di Zarathustra».

 

Archivio Nietzsche

 

Weimar, Luglio 1920.

 

Elisabeth Förster-Nietzsche.

Parte 1
PROLOGO DI ZARATHUSTRA

I.

Allorchè Zarathustra ebbe raggiunto il trentesimo anno, abbandonò il paese nativo ed il nativo lago e andò sulle montagne. Ivi godè del suo spirito e della sua solitudine e non se ne stancò per dieci anni. Ma alla fine il suo cuore si cangiò – e un mattino, levatosi con l'aurora si mise di fronte al sole e gli disse:

O grande astro! Che sarebbe della tua beatitudine, se tu non avessi coloro ai quali risplendi?

Da dieci anni vieni quassù nella mia caverna; ti saresti tediato della tua luce e di questo cammino, se non fosse per me, per l'aquila mia e pel mio serpente.

Ma noi ti attendevamo ogni mattina, prendevamo il tuo superfluo, benedicendoti in cambio.

Guarda, mi è venuta in disgusto la mia sapienza; come l'ape che ha raccolto troppo miele, ho bisogno di mani che si tendano a me.

Vorrei donare e distribuire fin che i savi tra gli uomini fossero ridivenuti lieti della loro follia e i poveri della loro ricchezza.

Perciò debbo discendere nel profondo: come tu fai la sera quando scomparisci dietro il mare e dispensi la luce tua anche al mondo degli inferi, tu astro fulgentissimo!

Al pari di te, io debbo tramontare, come dicono gli uomini, tra i quali voglio discendere.

Benedicimi dunque, occhio tranquillo, che puoi contemplare senza invidia anche una felicità troppo grande!

Benedici il calice che sta per traboccare, affinchè l'acqua ne esca dorata e porti da per tutto il riflesso della tua gioia!

Vedi! Questo calice vuol essere vuotato un'altra volta e Zarathustra vuol ridivenire uomo. Così cominciò la discesa di Zarathustra.

II.

Zarathustra discese solo, dalla montagna, e non si incontrò con alcuno. Ma quando giunse nei boschi subito gli si levò dinanzi un vecchio che aveva abbandonato la sua sacra capanna per cercare radici nella selva. E così parlò il vecchio a Zarathustra:

«Non mi è straniero questo viaggiatore; molti anni or sono egli passò di qui. Si chiamava Zarathustra; ma ora è mutato.

Portavi allora la tua cenere al monte; – vuoi tu oggi portare il fuoco nelle valli? Non temi il castigo degli incendiarî?

Sì, io riconosco Zarathustra. L'occhio suo è puro e sulle labbra non nasconde segno di disgusto. Non s'avanza egli simile a un danzatore?

Zarathustra si è trasformato; è ridivenuto un bambino; Zarathustra è un ridesto; che vuoi tu ora fra i dormienti?

Tu vivevi nella solitudine come in mezzo al mare, e il mare ti cullava. Ahimè, vuoi tu approdare? Ahimè, vuoi novellamente trascinare da te stesso il tuo corpo?».

Zarathustra rispose: «Io amo gli uomini».

«Perchè – disse il santo – mi rifugiai nella selva e nel deserto? Non forse perchè amai troppo gli uomini?

Ora amo Dio e non amo gli uomini. L'uomo è per me una cosa troppa imperfetta. L'amore per gli uomini mi ucciderebbe».

Zarathustra rispose: «Non parlai d'amore! Io reco agli uomini un dono».

«Non dare loro nulla – disse il santo. – Togli loro piuttosto qualche cosa o aiutali a portarla – codesto gioverà loro più di tutto: purchè giovi anche a te! E se vuoi donar loro qualcosa, non dare più di una elemosina e attendi che essi te la chiedino!»

«No, rispose Zarathustra, io non dispenso elemosine. Non sono abbastanza povero per far ciò».

Il santo rise di Zarathustra e parlò così: «Allora, vedi un po' se essi accettano i tuoi tesori! Essi diffidano dei solitari e non credono che noi veniamo per donare.

I nostri passi risuonano troppo solitari traverso le loro strade. E come quando di notte, dai loro letti, odono camminare un uomo, molto prima del levar del sole, si chiedono: dove va codesto ladro?

Non andare tra gli uomini e rimani nella selva! Va piuttosto tra gli animali! Perchè non vuoi tu essere come me – un orso tra gli orsi, un uccello tra gli uccelli?»

«E che cosa fa il santo nella selva?» domandò Zarathustra.

Rispose il santo: «Io compongo canzoni e le canto; e quando le compongo, rido, piango e mormoro: così lodo Iddio.

Col cantare, col piangere, col ridere e col mormorare, io lodo Iddio che è il mio nume. Ma che cosa ci porti tu in dono?».

Quando Zarathustra ebbe udito queste parole, salutò il santo e disse: «Che cosa avrei io da darvi? Ma lasciatemi partir presto, perchè non vi tolga nulla!». E così si separarono, l'un dall'altro, il vecchio e l'uomo, ridendo come ridono due fanciulli.

Ma quando Zarathustra fu solo, parlò così al suo cuore: «Sarebbe dunque possibile! Questo vecchio santo non ha ancora sentito dire, nella sua foresta, che Dio è morto!».

III.

Quando Zarathustra giunse alla vicina città che è presso le foreste, trovò gran popolo raccolto sul mercato: poichè era corsa voce che vi si sarebbe veduto un funambolo. E Zarathustra così parlò al popolo:

«Io insegno a voi il Superuomo. L'uomo è cosa che deve essere superata. Che avete fatto voi per superarlo?

Tutti gli esseri crearono finora qualche cosa oltre sè stessi: e voi volete essere il riflusso di questa grande marea, e tornare piuttosto al bruto anzichè superare l'uomo?

Che cosa è la scimmia per l'uomo? Una derisione o una dolorosa vergogna. E questo appunto dev'essere l'uomo per il Superuomo: una derisione o una dolorosa vergogna.

Voi avete tracciata la via dal verme all'uomo, ma molto c'è ancora in voi del verme. Una volta eravate scimmie, e ancor adesso l'uomo è più scimmia di tutte le scimmie. Ma anche il più saggio, fra di voi, non è che una cosa sconnessa, un essere ibrido tra pianta e fantasma.

E nondimeno vi consiglio io forse di divenir piante o fantasmi?

Ecco, io vi insegno il superuomo!

Il superuomo è il senso della terra. Dica la vostra volontà: il superuomo sia il senso della terra!

Vi scongiuro, fratelli miei, restate fedeli alla terra, e non credete a coloro che vi parlano di speranze soprannaturali. Sono avvelenatori, lo sappiano o no.

Sono spregiatori della vita, moribondi, avvelenatori di sè medesimi; la terra ne è stanca: se ne vadano dunque!

L'oltraggio a Dio era una volta il maggior delitto: ma Dio è morto e morirono con lui anche questi bestemmiatori.

Oltraggiar la terra è quanto vi sia di più terribile, e stimare le viscere dell'imperscrutabile più che il senso della terra è una colpa spaventosa.

Una volta l'anima guardava con disprezzo il corpo: e quel disprezzo era una volta il più alto ideale – lo voleva magro, odioso, affamato. Pensava, in tal modo, di sfuggire a lui e alla terra.

Oh, quest'anima era anch'essa magra, odiosa, affamata: e la crudeltà sua gioia suprema.

Ma voi pure, fratelli miei, ditemi: che cosa vi rivela il vostro corpo intorno all'anima vostra? Essa non è forse miseria e sozzura, e compassionevole contentezza di sè medesima?

In verità l'uomo è fangosa corrente. Bisogna addirittura essere un mare per poter ricevere in sè un torbido fiume senza divenire impuro.

Ecco, io vi insegno il superuomo: egli è questo mare, e in esso può inabissarsi il vostro grande disprezzo.

Che di più sublime potete voi sperimentare? Ecco l'ora del maggior disprezzo, l'ora nella quale vi verrà a noia non solo la vostra felicità, ma anche la vostra ragione e la vostra virtù.

L'ora in cui dite: «Che importa la mia felicità? Essa è povertà e sozzura e miserabile contentezza. Ma la mia felicità dovrebbe giustificare la vostra stessa vita!».

L'ora in cui dite: «Che importa della mia ragione? Brama essa la scienza come il leone il nutrimento? Essa è povertà e sozzura e una miserabile contentezza!».

L'ora in cui dite: «Che importa della mia virtù? Non mi ha ancor reso furibondo. Come sono stanco del mio bene e del mio male! Tutto ciò è miseria e sozzura e miserabile contentezza!».

L'ora in cui dite: «Che importa della mia giustizia? Non vedo che io sia fiamma e carbone. Ma il giusto è fiamma e carbone!».

L'ora in cui dite: «Che importa della mia pietà? La pietà non è forse la croce su cui inchiodano colui che ama gli uomini? Ma la mia pietà non è crocifissione».

Avete già parlato così? Avete già gridato così? Ah se vi avessi già udito gridare così!

Non il vostro peccato – la vostra moderazione grida contro il cielo, la vostra avarizia nello stesso peccato!

Dov'è il fulmine che vi lambisca con la lingua? Dov'è la follia con la quale potete esaltarvi?

Ecco, io v'insegno il superuomo: egli è questo fulmine, egli è questa follia!».

Allorchè Zarathustra ebbe parlato così, uno del popolo gridò: «Abbiamo ora udito abbastanza del funambolo; fate che adesso lo vediamo!». E tutto il popolo rise di Zarathustra. Ma il funambolo che credette la parola rivolta a lui, si accinse all'opera sua.

IV.

Ma Zarathustra guardava il popolo e si meravigliava. Poi disse:

«L'uomo è una fune tesa tra il bruto e il superuomo – una fune sopra l'abisso.

Pericoloso l'andare alla parte opposta, pericoloso il restare a mezza via, pericoloso il guardare indietro, pericoloso il tremare e l'arrestarsi.

Ciò ch'è grande nell'uomo è l'essere un ponte e non una meta: ciò che si può amare nell'uomo è l'essere una transizione e una distruzione.

Amo quelli che sanno vivere soltanto per sparire, poichè son coloro appunto che vanno oltre.

Io amo i grandi spregiatori perchè sono i grandi adoratori, freccie del desiderio verso l'opposta riva.

Amo coloro che non cercano, oltre le stelle, una ragione per offrirsi in sacrificio o perire; amo coloro che si sacrificano alla terra, perchè la terra appartenga un giorno al superuomo.

Amo colui che vive per conoscere, e che vuol conoscere affinchè, un giorno, viva il superuomo. E in tal modo egli vuol la propria distruzione.

Amo colui che lavora e inventa, per edificare una casa al superuomo e preparare a lui la terra, gli animali e le piante: giacchè vuole così la sua distruzione.

Amo colui che non ritiene per sè una sola goccia del suo spirito, ma che vuol essere interamente lo spirito della sua virtù: così egli varca, quale spirito, il ponte.

Amo colui che della sua virtù fa la propria inclinazione e il proprio destino: così vuole per amore della propria virtù vivere ancora o non più vivere.

Amo colui che della sua virtù fa la propria inclinazione e il proprio destino: così vuole per amore della propria virtù vivere ancora o non più vivere.

Amo colui che non vuole avere troppe virtù. Una virtù vale più di due, perchè essa è un nodo più saldo al quale s'aggrappa il destino.

Amo colui l'anima del quale si prodiga, che non vuole ringraziamento e non restituisce: giacchè egli dona sempre e non vuol conservare nulla di sè.

Amo colui che si vergogna se il dado cade in suo favore e si domanda: sono io dunque un pazzo giocatore? poichè egli vuole perire.

Amo colui che getta parole d'oro dinanzi alle sue azioni e mantiene sempre di più di quanto ha promesso poichè egli vuole la propria distruzione.

Amo colui che giustifica i venturi e redime i passati: poichè egli vuole perire in causa dei presenti.

Amo colui che castiga il suo Dio perchè lo ama: giacchè egli deve perire per la collera del suo Dio.

Amo colui la cui anima è profonda anche nella ferita, e che può perire per un piccolo avvenimento: così egli passa volentieri sul ponte.

Amo colui l'anima del quale è traboccante, così ch'egli dimentica sè stesso e tutte le cose che sono in lui: così tutte le cose cooperano alla sua distruzione.

Amo colui che è libero spirito e libero cuore: così la sua testa non è che un viscere del suo cuore, ma il cuore lo spinge alla rovina.

Amo tutti coloro che sono come gocce pesanti, cadenti una per una dalla fosca nube sospesa su gli uomini: esse annunziano che viene il fulmine, e periscono quali messaggeri.

Guardate, io sono un nunzio del fulmine e una pesante goccia della nube: ma questo fulmine si chiama superuomo».

V.

Quando Zarathustra ebbe pronunciate queste parole, guardò di nuovo gli uomini e tacque. «Eccoli – disse al suo cuore – essi ridono: essi non mi comprendono, io non sono bocca per queste orecchie.

Bisogna dunque prima spezzar loro le orecchie affinchè essi imparino a intender con gli occhi? Bisogna far dello strepito come cembali e predicatori della penitenza? Oppure essi non credono che a colui che balbetta?

Essi hanno qualcosa della quale vanno superbi. Come chiamano però, ciò che li fa superbi? La chiamano cultura: essa li distingue dai pastori di capre.

Perciò odono malvolentieri per loro la parola «disprezzo». Voglio dunque parlare al loro orgoglio.

Voglio dunque parlar loro di ciò che è più spregevole: cioè dell'ultimo uomo».

E così parlò Zarathustra al popolo:

«È tempo che l'uomo fissi a sè medesimo uno scopo. È tempo che l'uomo pianti il seme della sua più alta speranza.

Il suo terreno è ancora abbastanza ricco per questo. Ma questo terreno diverrà un giorno povero e sterile e nessun altro albero potrà crescervi.

Ahimè! Viene il tempo nel quale l'uomo non getterà più al di sopra degli uomini il dardo del suo desiderio, e la corda del suo arco più non saprà vibrare!

Vi dico: bisogna ancora portare in sè un caos, per poter generare una stella danzante. Vi dico: avete ancora del caos in voi.

Ahimè! Viene il tempo in cui l'uomo non potrà più generare alcuna stella. Ahimè! giunge il tempo del più spregevole tra gli uomini che non sa più disprezzare sè stesso.

Guardate! Io vi mostro l'ultimo uomo.

«Che cosa è amore? Che cosa è creazione? Che cosa è nostalgia? Che cosa è astro?» – così chiede l'ultimo uomo ammiccando.

La terra sarà divenuta allora piccina e su di lei saltellerà l'ultimo uomo che impicciolisce ogni cosa.

La sua razza è indistruttibile come quella della pulce; l'ultimo uomo vive più a lungo di tutti.

«Noi abbiamo inventato la felicità» – dicono gli ultimi uomini e ammiccano.

Essi hanno abbandonate le regioni dove duro era vivere: giacchè si ha bisogno di calore. Si ama ancora il vicino e ci si stropiccia a lui: giacchè si ha bisogno di calore.

Ammalarsi e diffidare equivale per essi a peccato: avanziamo guardinghi. Folle chi incespica ancora nei sassi o negli uomini!

Un po' di veleno di qui e di là: ciò produce sogni gradevoli. E molto veleno infine, per una gradevole morte.

Si lavora ancora poichè il lavoro è uno svago. Ma si ha cura che lo svago non ecciti troppo.

Non si diviene più poveri e ricchi: entrambe queste cose sono troppo opprimenti. Chi vuole ancora regnare? Chi ancora obbedire? Entrambe queste cose sono troppo opprimenti.

Nessun pastore e un solo gregge. Ognuno vuol la stessa cosa, ognuno è simile: chi sente altrimenti, va volentieri al manicomio.

«Una volta tutto il mondo era pazzo» dicevano i più astuti ammiccando.

Si è prudenti e si sa tutto ciò che accade: così non si hanno limiti nel deridere. Ci si bisticcia ancora, ma subito ci si riconcilia – altrimenti ci si rovina lo stomaco.

Abbiamo i nostri svaghi per il giorno e i nostri svaghi per la notte: ma pregiamo la salute.

«Noi abbiamo inventato la felicità» dicono, ammiccando gli ultimi uomini».

E qui Zarathustra terminò il primo discorso che si chiama anche «l'introduzione»: giacchè in quel punto l'interruppe il clamore e la gioia della folla. «Dacci questo ultimo uomo, o Zarathustra – essi gridavano – rendici simili a quest'ultimo uomo». E tutto il popolo giubilava e faceva schioccare la lingua. Ma Zarathustra divenne triste e disse al suo cuore:

«Essi non mi comprendono: io non sono bocca per queste orecchie.

Troppo a lungo, certo, vissi nella montagna, troppo ascoltai i ruscelli e gli alberi: ora parlo a loro come a pastori di capre.

L'anima mia è serena e luminosa quale montagna al mattino. Ma essi pensano che io sia freddo e un buffone dalle burle atroci.

Ed ecco che mi guardano e ridono: e mentre ridono essi mi odiano ancora. Vi è del ghiaccio nel loro riso».

VI.

Ma allora accadde qualcosa, che fece ammutolire ogni bocca, irrigidire ogni sguardo. Nel frattempo il saltimbanco aveva infatti cominciato il suo lavoro: era uscito da una porticina e camminava su la corda tesa fra le due torri, così che rimaneva sospeso sopra il mercato e la folla. Quando fu appunto a metà del suo cammino, la piccola porta si aperse ancora una volta, e saltò fuori un garzone screziato, somigliante a un pagliaccio, che seguì con passi rapidi il primo. «Avanti, zoppo, gridò la sua terribile voce, avanti poltrone, paltoniere, faccia smunta! Bada ch'io non ti carezzi con le mie calcagna! Che fai tu qui fra le torri? Bisognerebbe appunto chiuderti nella torre; tu sbarri la via a uno migliore di te». E ad ogni parola gli si avvicinava sempre più: ma quando egli fu soltanto a un passo da lui, allora avvenne questa cosa terribile che fece ammutolire ogni bocca ed irrigidì ogni sguardo – egli gettò un grido indemoniato e saltò oltre colui che gli impediva il cammino. Ma questi, allorchè vide vincer così il proprio rivale, perdette la testa e la fune; gettò via la pertica e più svelto di questa, come un turbine di braccia e di gambe, precipitò nell'abisso. Il mercato e il popolo somigliavano al mare quando si solleva la tempesta: tutti fuggivano l'un dall'altro e l'uno sopra l'altro, e principalmente in quel punto ove doveva precipitare il corpo.

Zarathustra però non si mosse, e proprio accanto a lui cadde il corpo straziato, sfracellato, ma non morto ancora. Dopo un poco quell'infranto rinvenne e vide Zarathustra inginocchiato presso di lui. «Che fai tu qui?, disse infine; sapevo da gran tempo che il diavolo m'avrebbe giocato di sgambetto. Ora mi trascina all'inferno: vuoi tu impedirglielo?».

«Sul mio onore, o amico, rispose Zarathustra, non esiste affatto quanto tu dici: non vi è nessun diavolo e nessun inferno. L'anima tua morirà prima ancora del tuo corpo. Non temere più nulla».

L'uomo guardò su, diffidente. «Se tu dici la verità, diss'egli poi, allora io non perdo nulla perdendo la vita. Io non sono molto più di una bestia alla quale insegnarono a ballare a furia di busse e di scarso alimento».

«Non è punto così, disse Zarathustra; tu hai fatto del pericolo il tuo mestiere; in ciò nulla vi è di spregevole. Ora tu perisci pel tuo mestiere: voglio quindi seppellirti con le mie mani».

Quando Zarathustra ebbe detto questo, il moribondo non rispose più, ma scosse la mano, come se cercasse la mano di Zarathustra per ringraziarlo.

VII.

Giunse frattanto la sera ed il mercato si avvolse di tenebre: allora il popolo si disperse, poi che anche la curiosità e lo spavento si stancano. Ma Zarathustra sedette presso il morto, sulla terra, e s'immerse nei pensieri: così dimenticava il tempo. E giunse alla fine la notte, e soffiò un vento freddo sul solitario. Allora Zarathustra si alzò e disse al suo cuore:

«Davvero una bella pesca ha fatto oggi Zarathustra! Non trovo alcun uomo, bensì un cadavere.

Inquietante è l'esistenza umana e, di più, sempre priva di senso: un buffone può divenirle fatale.

Io voglio insegnare agli uomini il senso della loro vita: chi è il superuomo, il lampo di quella oscura nube che è l'uomo.

Ma sono ancor lungi da essi e il senso mio non parla ai loro sensi. Per gli uomini io sono ancora un punto centrale tra pazzo e cadavere.

Buia è la notte, buie sono le vie di Zarathustra. Vieni, rigido e freddo compagno. Ti conduco al luogo ove ti seppellirò con le mie mani».

 

VIII.

Allorchè Zarathustra ebbe detto questo al suo cuore, si caricò il cadavere sulle spalle e si pose in cammino. E non aveva ancora fatto cento passi, quando un uomo gli si avvicinò e gli sussurrò nell'orecchio – e vedi! Colui che parlava era il buffone della torre.

«Vattene via da questa città, o Zarathustra, diss'egli; qui troppi ti odiano. I buoni e i giusti ti odiano e ti chiamano loro nemico e spregiatore; ti odiano i credenti della vera fede e ti chiamano il pericolo della folla. Fu tua fortuna che si ridesse di te: e veramente tu parlavi a guisa di un buffone. Fu tua fortuna che tu ti accompagnassi al cane morto; abbassandoti così ti sei salvato per oggi. Ma vattene via da questa città; altrimenti domani io salterò sopra di te, un vivente sopra un cadavere». E quando ebbe detto ciò, disparve, l'uomo; ma Zarathustra continuò il cammino attraverso le vie tenebrose. Alle porte della città s'incontrò coi becchini: essi alzarono le fiaccole per vederlo in viso, riconobbero Zarathustra e si burlarono molto di lui. «Zarathustra porta con sè il cane morto: bravo, Zarathustra divenne becchino! Giacchè le nostre mani sono troppo pulite per questa vivanda. Vuol forse Zarathustra rubare la preda al diavolo? Ebbene! Buon appetito pel desinare! Purchè il diavolo non sia miglior ladro di Zarathustra! – Egli ruba entrambi, entrambi divora!». Ed essi ridevano fra di loro e bisbigliavano.

Zarathustra non disse parola e proseguì la sua via. Come ebbe camminato due ore lungo boschi e paludi, l'aver troppo a lungo udito l'urlo dei lupi destò anche in lui la fame. Si fermò quindi a una casa isolata, dove ardeva una luce.

«La fame mi assale come un brigante, disse Zarathustra. La fame mi assale tra i boschi e le paludi, nella notte profonda.

Meravigliosi capricci ha la mia fame. Sovente essa non mi viene che dopo il pasto, ed oggi non mi è venuta in tutto il giorno: dove s'è dunque indugiata?».

E Zarathustra picchiò alla porta della casa. Apparve un vecchio che portava il lume e chiese: «Chi viene a me e al mio cattivo sonno?»

«Un vivente ed un morto, disse Zarathustra. Datemi da mangiare e da bere, me ne dimenticai durante il giorno. Chi dà da mangiare agli affamati ristora la propria anima: così parla la sapienza».

Il vecchio si allontanò, ma tornò tosto indietro ed offerse a Zarathustra pane e vino. «È una cattiva contrada per gli affamati, diss'egli; per questo abito qui. Bestie e uomini vengono a me, solitario. Ma invita anche il tuo compagno a mangiare e a bere, egli è più stanco di te». Zarathustra rispose: «Morto è il mio compagno, e ve lo deciderei difficilmente». «Questo non mi riguarda, disse il vecchio arcigno; chi bussa alla mia porta deve prendere anche ciò che gli offro. Mangiate e state bene!».

Zarathustra camminò poi nuovamente per due ore, affidandosi alla via ed al chiaror delle stelle: giacchè egli era solito andar di notte, e amava guardare in faccia tutto ciò che dorme. Ma quando cominciò a spuntare il giorno, Zarathustra si trovò in un profondo bosco e non vide più alcun sentiero. Allora depose il morto nella cavità di un albero, all'altezza della sua testa – poichè voleva proteggerlo dai lupi – e si sdraiò per terra sul musco. E subito s'addormentò, stanco il corpo, ma con l'anima imperturbata.

IX.

A lungo dormì Zarathustra, e non l'aurora soltanto, ma anche il mattino gli passò sul volto. Gli si apersero gli occhi alla fine: meravigliato guardò Zarathustra nella foresta e nel silenzio, meravigliato guardò entro di sè. Poi s'alzò svelto, come il marinaio che vede improvvisamente la terra, e mandò un grido di giubilo poichè egli vedeva una nuova verità.

E così parlò quindi al suo cuore: