BARI
GIUS. LATERZA & FIGLI
TIPOGRAFI—EDITORI—LIBRAI
1911
GIACOCO vecchio
GIACOMINO suo figlio
CAPPIO servo
LARDONE parasito
ANTIFILO innamorato
Spagnuolo
Pedante
ALTILIA giovane
LIMA balia
Tedesco
LIMOFORO
PSEUDONIMO
Capitano.
La favola si rappresenta in Napoli.
GIACOCO. Tate, petate e castagne infornate. Zitto, che ti venga la pipetola; m'hai dato tante vernecalonne e vernecocche che m'hai fatto venire le petecchie. Lassamo sti conti dell'uorco, Iacoviello mio, figlio buono come lo buono iuorno, e ascota ca te boglio dicere: io me ne vao a Posilipo, ca Smorfia lo parzonaro m'ha ditto ca vole vendegnare; e se non ci vao e sto con tanti d'uocchi apierti, dell'uva non me ne fa toccare n'aceno.
GIACOMINO. Andate in buon'ora, Giacoco, mio caro padre, attendete alla vostra salute da cui dipende tutta la nostra; ma quando sarete di ritorno?
GIACOCO. Crai, poscrai, poscrigni o piscrotte allo chiú chiú, ca la vendegna ce la faccio brocioleare. Guardáte la casa, pigliatevi spasso e sguazzate.
CAPPIO. Se volete che sguazziamo, lasciateci denari assai.
GIACOCO. Mò volea mettere no spruocco allo pertuso se non ci rispondevi tu e bolivi danari: ca te venga la visintieria e ti si secchi la lengua quanno li nuommeni!
CAPPIO. Una dozina di ducati che ne lasciaste sarebbe ben poca.
GIACOCO. Squágliamete denante, ca puozze sparafondare, ca m'hai dato na pommardata dintro l'orecchia. Ca te sia data stoccata catalana alla zezza manca, ca ce capa dintro lo Castiello co l'artigliarie e onne cosa! non me ne mandare chiú de chesse giasteme, ca me fareste diventare no pizzico de cenere.
CAPPIO. Oimè!
GIACOCO. Oimè, ca trona: va', frate mio, ca marzo se ne trase.
CAPPIO. Non sguazzaremo dunque?
GIACOCO. «Né mò né mai»—disse Cola da Trane. Iacoviello mio, sai ca te boglio dicere? cerca dintro le saccocciole de chille cauze vecchie meie, ca ce trovarai doe cincoranelle larghe, stipatelle; e mò ca m'arrecordo, apri quello scrigno vecchio e cerca dintro chille bertole, ca ce trovarai na cinquinella. Compráte robbe a bizeffe, mangiate ad uocchie de puorco, satorateve a pietto de cavallo, bevete a diluvio; e lassate qualche morzillo pe quanno torno.
CAPPIO. Lasciatici alcun'altra cosa.
GIACOCO. Guerregnao, chisto m'ha fatto la gatta: non aggio chiú spanto, porrissivo sonare le campane de gloria.
CAPPIO. Qualche cosetta almeno.
GIACOCO. Te', all'uocchi tuoi!
CAPPIO. Volete che pigliamo pane in credenza dal fornaio?
GIACOCO. None, te dico.
CAPPIO. Che solamente spendiamo quelle cincoranelle?
GIACOCO. Sine, te dico. Non chiú parole, ca me se abbottano sti co…. chiú de na guállara.
CAPPIO. Metterò mano alla botte.
GIACOCO. Se tu metti mano alla votte, io metterò mano alle bòtte pe sse spalle: schitto che ti muovi a far delle toie, quanno torno te faraggio provare che zuco renne cótena, pe l'arma delli muorti mei. Iacoviello mio, me ne vao; covernamitte.
CAPPIO. (Che non ci torni piú!).
GIACOCO. Che hai vervesiato, chiattelluso, scummabruoccuoli, aguiento da cancari?
CAPPIO. Il Cielo vi facci tornar presto!
GIACOCO. Vao, ca no me coglia notte pe la via.
CAPPIO. Mira avarizia di uomo, piatisce con i cimiteri e con i vermi e risparmia come non avesse a morir mai.
GIACOMINO. Quanto piú invecchia l'uomo, tanto l'avarizia piú ringiovenisce: egli è cosí avaro come misero e cosí misero come avaro.
CAPPIO. O che mai ne paressero vecchi! tutti avari, fastidiosi, ritrosi, pazzi, rimbambiti; sempre minacciano, bestemiano, gridano, si lamentano, né si contentano mai.
GIACOMINO. Veramente quando l'uomo passa i quarant'anni doverebbe morire e smorbare il mondo. Tutti perdono la memoria per non ricordarsi di quando son stati giovani.
CAPPIO. Anzi morire alli quaranta e lassar godere a' giovani com'han essi goduto. Dice che vuol tornar presto: oh che quella parola fosse tornata tossico che subito l'avesse ucciso!
GIACOMINO. Certo, che quel tornar presto ci turba ogni disegno.
CAPPIO. Intanto attendiamo a dar la battaglia al granaio, alla caneva e a' formaggi.
GIACOMINO. Bisogna attendere alla battaglia che amor mi dá nel cuore con assalti piú atroci che ritrovar si possino. Non posso piú resistere, mi rendo vinto, sono abbattuto e morto.
CAPPIO. Se sète morto, requiescat in pace, provedasi di sepoltura.
GIACOMINO. Cappio, ti burli di me?
CAPPIO. Giá cominciate a freneticar senza febre.
GIACOMINO. La febre amorosa mia è stata sempre continua e cosí ardente nel cuore che non mi lascia mai per un sol momento.
CAPPIO. Forse son resuscitati gli amori di Salerno?
GIACOMINO. Non son resuscitati, perché non moriro mai. Sappia il mio caro Cappio che dal dí che mi partii dalla mia Altilia l'anno passato da Salerno, restai il piú misero ed infelice uomo che viva; ma ben aventurato e felice che, in questa mia miseria ed infelicitade, la memoria de' ricevuti favori e la speranza di avere a tornar presto a rivederla son stati saporitissimo cibo alla fame e al digiuno de' miei pensieri, che agl'incendi miei desideravano rinfrescamento; ché s'io avessi voluto con importuna temeritá violar la modestia, la generositá dell'animo suo e il merito del suo amore, arei conseguito da lei quanto desideravo.
CAPPIO. Per quanto accorger mi potei, ella altro non bersagliava che avervi per isposo.
GIACOMINO. Ella ha compito il bersaglio, ch'io altro non desidero che averla per moglie.
CAPPIO. Non so se l'avarizia di vostro padre contenterassi che voi toglieste per moglie una figlia d'un maestro di scola e senza dote.
GIACOMINO. I suoi costumi e la bellezza son tali che la rendono degna di maggior uomo ch'io non sono, e senza dote. Queste doti apportano piú danno al restituirle che ricchezza quando si prendono. E che maggior tesoro della sua bellezza? Ella ave oro nei capelli, zafiri negli occhi, rubini nelle labra e perle ne' denti. Qual miniera produsse mai cosí fin oro o sí ricche gioie? O me sopra tutti gli uomini felicissimo, s'io possedessi un tal tesoro!
CAPPIO. Che ordinate che si facci?
GIACOMINO. Or che l'assenza di mio padre ci porge la commoditá, vuo' che subito vadi a Salerno. Tratta con Lima, la sua balia, archivio de' nostri secreti amorosi, e con Lardone parasito, che oprino appo lei in che luogo ed ora possiamo ritrovarci insieme, acciò possa satollar questi occhi famelici della sua vista. E se pur questo mi negasse, che miri almeno nel mio volto l'opera del suo valore. Del che se tu mi compiaci, ti compiacerai poi d'avermi compiaciuto.
CAPPIO. Oprar con Lima e con Lardone voi ben sapete che vi bisogna.
GIACOMINO. Che cosa?
CAPPIO. Un poco di musica.
GIACOMINO. Come musica?
CAPPIO. Porre in un fazzoletto alcuni scudi e poi dargli due squassatine che rendano suono, perché il suono de' scudi si fa sentir da lungi e fa piú dolce armonia di qualsivoglia istrumento, e massime se son traboccanti.
GIACOMINO. Pur bisogna disporgli.
CAPPIO. Essi risponderanno e disporranno meglio di voi.
GIACOMINO. Baciagli le mani da mia parte.
CAPPIO. I scudi gli faranno i baciamani meglio che voi.
GIACOMINO. Dove son questi scudi?
CAPPIO. Pigliate i capelli d'Altilia che son di miniera, coceteli al foco del vostro core, batteteli col martello, col quale amor vi picchia, in verghe e fatene scudi; o vendete quei rubini, zafiri e perle del suo volto, e cominciate a smaltir cosí gran tesoro.
GIACOMINO. Quei capei tutti son lacci per incatenarmi ed appiccarmi. Ma eccoti diece scudi che gli ho accoppiati col risparmio di quest'anno a tal effetto.
CAPPIO. Or sí, che il focile arde ed il martello lavora.
GIACOMINO. Rinnova l'amor con Lima, ché ci porghi il suo aiuto; ché questa mona Onesta sarebbe per corromper l'onestade.
CAPPIO. Questi danari e il desiderio che ho di servirvi mi giongeranno l'ali a' piedi e mi faran correr velocissimo.
GIACOMINO. Pártiti or ora con quella prestezza che si richiede al mio desiderio, ché la prestezza e diligenza è madre del buon esito delle cose.
CAPPIO. Entrate, ch'io provedendomi d'alcune cose per il viaggio, mi porrò in camino.
LARDONE. (O Cielo, che trovasse alcuno che mi ricevesse a pranso questa mattina!).
ANTIFILO. (O Cielo, o stelle, che v'ho fatt'io, che mi trattate cosí male? O morte, perché sai c'ho in odio la vita, però non me la togli?).
LARDONE. (Ecco Antifilo, l'innamorato d'Altilia, concorrente nell'amore con Giacomino, ma con disegual sorte: ché tanto Giacomino è amato quant'egli è disamato da lei).
ANTIFILO. (O Cielo, che amare ferite son queste? poiché mi son messo ad amare una tigre, mi devo però io disperar del tutto? No, perché nella disperazione suol sempre rinverdirsi qualche speranza).
LARDONE. (Certo, che lo desiava incontrare, ché mi pregò Altilia, incontrandolo gli donassi una lettera. Son certo che sarò il corriero della mala novella; ma gli cercarò prima la mancia che la legga, ché dopo letta so che mi odiará a morte).
ANTIFILO. Ma non è Lardon quel che veggio, o forse il desiderio me lo fa cosí parere?
LARDONE. Lo vedi veramente; e v'ho servito secondo il vostro desiderio.
ANTIFILO. Dimmi, Lardone mio, come stia.
LARDONE. Io non son medico che toccandovi il polso lo potessi sapere.
ANTIFILO. Lo sai meglio d'un medico: se mi rechi lieta risposta alla mia lettera, son vivo; se mala, son disperato della vita. Onde se vedrò con effetto che m'hai servito bene, ti farò conoscere che da me sarai servito assai meglio.
LARDONE. Ho dato la lettera ad Altilia.
ANTIFILO. E come debbo crederlo?
LARDONE. Ecco la risposta per testimonio che gli l'ho data.
ANTIFILO. E perché non me la dái, o illustrissimo mio Lardone?
LARDONE. E tu perché non mi dái la mancia, o eccellentissimo mio
Antifilo?
ANTIFILO. Te la darò doppo letta.
LARDONE. Doppo che l'innamorato ha conseguito l'effetto con la sua amata, non si ragiona piú de' mezi.
ANTIFILO. Che vorresti dunque?
LARDONE. Due scudi almeno.
ANTIFILO. Eccoti due scudi l'un sopra l'altro.
LARDONE. Poco mi si dá che l'un stia sopra o sotto dell'altro. Ma che son scudi ch'han ali alle spalle ed a' piedi e corrono e volan via?
ANTIFILO. O Lardone, se qua dentro risplenderá qualche favilla di speranza, vedrai la mia liberalitá in altra forma.
LARDONE. Leggete e vedrete.
ANTIFILO. Oimè, mi trema la mano, e pare che sia paralitico. So che qui dentro non ci può esser cosa che buona sia. Leggerò pure.—«Voi mi chiamate selvaggia, ingrata, disamorevole, empia tigre, crudelissima vipera e velenoso basilisco. Ma se son tigre, perché mi segui? se son vipera, perché mi servi? se basilisco, perché mi miri? Lasciami dunque vivere nella mia crudeltá, nella mia fierezza, ed ingratitudine, né piú noiarmi con le tue importunitadi. Quando mai t'allettai ad amarmi? quando in parole o atti di avermi a seguire? se col desiderio ti pasce la speranza, quando ti ho dato io speranza che tu m'amassi? quando ti promisi fedeltá in amore? Tu stesso, per un tuo disordinato appetito, per un vano desiderio ed ostinata perfidia, mi hai sempre infastidita. Sarei veramente crudele, se mi ti fossi mostrata al principio pietosa e poi divenuta ingrata, se avessi promesso amarti e poi ritirata mi fussi…».—O cuor di marmo, o anima di bronzo, o petto di diamante! deh, perché non vo a precipitarmi?
LARDONE. Veramente una turca, una cagna.
ANTIFILO. Non vuo' piú legger per non morirmi affatto de disperazione. Ma io vuo' leggerla solo per morire: a chi vive senza speranza, la morte sola gli è medicina.—«… Dicovi che voi stesso sète cagione del vostro male, voi stesso la fucina de' vostri strali, voi stesso tessete fallacie, inganni e vani pensieri d'ingannar voi stesso. Tu dici che t'ho innamorato con la vista; tu ben sai che ti ho sempre scacciato con ogni mostra di sdegno. Se tu con la speranza hai sempre ravvivato le tue fiamme, ed io te l'ho sempre incenerite con odi, repulse ed ogni sorte de dispreggio: e perché dunque non disenganni te stesso?…».—Ed io posso legger questo e non morire? O parole uscite da' piú profondi luoghi del centro! O Lardone, e nel regno d'Amore trovasi piú gran mostro?
LARDONE. Veramente mostro di crudeltate! Finite pure.
ANTIFILO. «… Dite che son bellissima, che la mia beltá vi trasse a mirarmi e che d'allora in qua Amor si fe' signore e tiranno del vostro cuore; e che amando me, io obbligata sono a riamarvi. Se la mia bellezza v'ha spinto ad amarmi, non per questo io debbo amarvi; perché se voi non parete bello agli occhi miei, e se l'amore è atto della libera volontá né si lascia sforzare, come posso io sforzar me stessa ad amarvi? Amisi o per elezione o per destino, io né per l'uno né per l'altro posso amarvi; e tanto è amare alcuno contra la sua volontá e contro il tenor del Cielo, quanto camminar per un mar periglioso con venti contrari, senza sarte e senza vele, perché alfin doppo varie tempeste si truovi sommerso in un golfo di pene e de' suoi sproporzionati e disordinati desidèri…».—O che parole magiche e funeste, o tirannia d'amor non mai piú intesa!
LARDONE. Certo, che dovreste odiarla quanto l'amate.