L’Esclusa
Luigi Pirandello
e-ISBN: 9783963617577
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L'esclusa è un romanzo di Luigi Pirandello, il cui titolo originario era Marta Ajala. Finito di scrivere nel 1893, fu pubblicato a puntate nel 1901 sulla rivista La Tribuna e, nel 1908, in volume. Pirandello lavora sullo sfondo tipico della letteratura del Verismo, ricca di dinamiche sociali ben descritte nei loro pregiudizi e nelle loro sanzioni; a questo, l'autore aggiunge una vicenda che rimanda ai paradossi del dramma esistenziale, del contrasto tra sostanza e apparenza.
Dal romanzo emerge anche il relativismo conoscitivo, ovvero l'impossibilità di avere una realtà oggettiva; infatti la donna è convinta che la scelta del marito di cacciarla di casa sia una scelta errata (perché, appunto, innocente), di contro il marito è fermamente certo che cacciare di casa la moglie adultera sia la cosa migliore (almeno in un primo momento, poi sarà afflitto dai sensi di colpa e tenterà di farla ritornare).
È quindi evidente che entrambi i personaggi sono certi di possedere la verità, dimostrando l'inesistenza di una realtà oggettiva univoca e veritiera. Inoltre, il romanzo "gira" attorno ad un motto in latino: "NIHIL-MIHI-CONSCIO" (presente alla fine di quasi tutte le lettere dell'Alvignagni), che letteralmente significa "La coscienza non mi basta", quando tutti credono che tu abbia fatto qualcosa o ti comporti in un certo modo, non ti basta sapere dentro te stesso che non è vero. Lo devi esternare, devi convincere anche gli altri. Altrimenti la frustrazione ti domina e vorresti ferire le altre persone (proprio come succede a Marta).
Marta è una giovane ragazza sposata con Rocco Pentagora. Il marito scopre alcune lettere inviatele da un ammiratore (Gregorio Alvignani) e la giovane viene così accusata ingiustamente di adulterio e cacciata da casa: il marito l'abbandona e viene disprezzata da tutti. Il padre si isola nella sua camera e al momento del difficile parto di Marta muore, come il bambino di Marta. Così nella disperazione, la famiglia subisce ingiustizie da parte della gente del paese, ormai al corrente dei fatti accaduti; dopo la morte del padre la conceria viene affidata a Paolo Sistri, l'attività fallisce e la famiglia cade in miseria. Marta comincia a studiare e partecipa, pur non essendo appoggiata dall'ex-marito Rocco, dalla madre Agata e dall'unica amica rimasta, Anna, al concorso per il posto di maestra presso la scuola dell'istituto.
Marta vince il concorso, ma viene esclusa e sostituita da una raccomandata. La madre decide di parlare col direttore della scuola, che le concede un posto, nonostante ciò Marta viene costretta dalle alte cariche del paese a fingersi malata. Il direttore, aiutato dall'oramai deputato Alvignani, trova di nuovo una soluzione: Marta viene trasferita con la sorella e la madre a Palermo.
La vita migliora molto a Palermo: la loro storia è all'oscuro di tutti e a scuola Marta si trova bene, anche se molti colleghi le fanno la corte. Durante il soggiorno palermitano Marta rincontra l'Alvignani e, credendo di esserne innamorata, ha un figlio da lui. Contemporaneamente viene chiamata dalla madre di Rocco, anche lei accusata d'infedeltà, Marta chiama subito Rocco. Quando arriva, i due vegliano insieme le ultime ore della madre. In seguito, Marta viene completamente riaccettata in famiglia, nonostante il fatto che per la prima volta sia accaduto un tradimento.
Antonio Pentàgora s'era già seduto a tavola tranquillamente per cenare, come se non fosse accaduto nulla.
Illuminato dalla lampada che pendeva dal soffitto basso, il suo volto tarmato pareva quasi una maschera sotto il bianco roseo della cotenna rasa, ridondante sulla nuca. Senza giacca, con la camicia floscia celeste, un po' stinta, aperta sul petto irsuto, e le maniche rimboccate sulle braccia pelose, aspettava che lo servissero.
Gli sedeva a destra la sorella Sidora, pallida e aggrottata, con gli occhi acuti adirati e sfuggenti sotto il fazzoletto di seta nera che teneva sempre in capo. A sinistra, il figlio Niccolino, spiritato, con la testa orecchiuta da pipistrello sul collo stralungo, gli occhi tondi tondi e il naso ritto. Dirimpetto era apparecchiato il posto per l'altro figlio, Rocco, che rientrava in casa, quella sera, dopo la disgrazia.
Lo avevano aspettato finora, per la cena. Poiché tardava, s'erano messi a tavola. Stavano in silenzio tutt'e tre, nel tetro stanzone, dalle pareti basse, ingiallite, lungo le quali correvano due interminabili file di seggiole quasi tutte scompagne. Dal pavimento un po' avvallato, di mattoni rosi, spirava un tanfo indefinibile, d'appassito.
Finalmente, Rocco apparve sulla soglia, cupo, disfatto. Era uno stangone biondo, di pochi capelli, scuro in viso e con gli occhi biavi, quasi vani e smarriti, che però gli diventavano cattivi quando aggrottava le sopracciglia e stringeva la bocca larga, dalle labbra molli, violacee. Camminando sulle gambe aperte, si dimenava sul busto e seguiva con la testa e con le braccia l'andatura. Ogni tanto aveva un tic alle corde del collo che gli faceva protendere il mento e tirare in giù gli angoli della bocca.
- Oh, bravo Roccuccio, eccolo qua! - esclamò il padre fregandosi le grosse mani ruvide, piene d'anelli massicci.
Rocco stette un po' a guardare i tre seduti a tavola, poi si buttò su la prima seggiola presso l'uscio, coi gomiti su le ginocchia, le pugna sotto il mento, il cappello su gli occhi.
- Oh, e àlzati! - riprese il Pentàgora. - T'abbiamo aspettato, sai? Non mi credi? Parola d'onore, fino alle dieci... no, più, più... che ora è? Vieni qua: ecco il tuo posto: apparecchiato, qua, come prima.
E chiamò, forte:
- Signora Popònica!
- Epponìna, - corresse Niccolino a bassa voce.
- Zitto, bestia, lo so. Voglio chiamarla Popònica, come tua zia. Non è permesso?
Rocco, incuriosito, alzò la testa e brontolò:
- Chi è Popònica?
- Ah! una signora caduta in bassa fortuna, - rispose allegramente il padre. - Vera signora, sai? Da jeri ci fa da serva. Tua zia la protegge.
- Romagnola, - aggiunse Niccolino, sommessamente.
Rocco ripiegò la testa su le mani; e il padre, soddisfatto, si recò pian piano alle labbra il bicchiere ricolmo; lo scoronò con un sorsellino cauto; poi strizzò un occhio a Niccolino e, facendo schioccare la lingua:
- Buono! - disse. - Roccuccio, vino nuovo; fa stringer l'occhio... Assaggia, assaggia, ti rimetterà lo stomaco. Sciocchezze, figlio mio!
E tracannò il resto in un fiato.
- Non vuoi cenare? - domandò poi.
- Non può cenare, - osservò piano Niccolino.
Tacquero tutti, badando che le forchette non frugassero nei piatti, come per non offendere il silenzio ch'empiva penosamente lo stanzone. Ed ecco la signora Popònica, coi capelli color tabacco di Spagna, unti non si sa di qual manteca, gli occhi ammaccati e la bocca grinzosa appuntita, entrare tentennante su le gambette, forbendosi le mani piccole, sconciate dal lavoro, in una giacca smessa del padrone, legata per le maniche intorno alla vita a mo' di grembiule. La tintura dei capelli, l'aria mesta del volto davano a vedere chiaramente che quella povera signora caduta in bassa fortuna avrebbe forse desiderato qualcosa di più che il disperato amplesso di quelle maniche vuote.
Subito Antonio Pentàgora con la mano le fe' cenno d'andar via: non c'era più bisogno di lei, poiché Rocco non voleva cenare. Quella inarcò le ciglia, sbalzandole fin sotto i capelli, distese su gli occhi dolenti le pàlpebre cartilaginose, e andò via, dignitosa, sospirando.
- Ricòrdati, oh! che te l'avevo predetto, - uscì a dire finalmente il Pentàgora.
Sonò il suo vocione così urtante nel silenzio, che la sorella Sidora, quantunque sempre astratta, balzò da sedere, tolse dalla tavola il piatto dell'insalata, ghermì un tozzo di pane, e scappò via, a finir di cenare in un'altra stanza.
Antonio Pentàgora la seguì con gli occhi fino all'uscio, poi guardò Niccolino e si stropicciò il capo con ambo le mani, aprendo le labbra a un ghigno frigido, muto.
Ricordava.
Tant'anni addietro, anche a lui, di ritorno alla casa paterna dopo il tradimento della moglie, la sorella Sidora, bisbetica fin da ragazza, aveva voluto che non si movesse alcun rimprovero. Zitta zitta, lo aveva condotto nell'antica sua camera da scapolo, come se con ciò avesse voluto dimostrargli che si aspettava di vederselo un giorno o l'altro ricomparire davanti, tradito e pentito.
- Te lo avevo predetto! - ripeté, riscotendosi da quel ricordo lontano, con un sospiro.
Rocco si alzò, smanioso, esclamando:
- Non trovi altro da dirmi?
Niccolino allora tirò, sotto sotto, la giacca al padre, come per dirgli: «Stia zitto!».
- No! - gridò forte il Pentàgora su la faccia di Niccolino. - Vieni qua, Roccuccio! Lèvati codesto cappello dagli occhi... Ah, già: la ferita! Lasciami vedere...
- Che m'importa della ferita? - gridò Rocco, quasi piangente dalla rabbia, sbertucciando e sbatacchiando il cappello sul pavimento.
- Sì, guarda come ti sei conciato... Acqua e aceto, subito: un bagnolo.
Rocco minacciò:
- Ancora? Me ne vado!
- E vàttene! Che vuoi da me? Parla, sfògati! Ti prendo con le buone, e spari calci... Mettiti il cuore in pace, figliuolo mio! La lettera, io dico, avresti potuto raccoglierla con più garbo, senza romperti così la fronte nello sportello dell'armadio. Ma basta: sciocchezze! Denari ne hai quanti ne vuoi; femmine, potrai averne quante ne vorrai. Sciocchezze!
Sciocchezze! era il suo modo d'intercalare e accompagnava ogni volta l'esclamazione con un gesto espressivo della mano e una contrazione della guancia.
Si levò di tavola e, recatosi presso il cassettone, su cui stava accoccolato un grosso gatto bigio, trasse una candela; staccò, per dare a vedere ciò che intendeva fare, i gocciolotti dal fusto; poi l'accese e sospirò:
- E ora, con l'ajuto di Dio, andiamo a dormire!
- Mi lasci così? - esclamò Rocco, esasperato.
- E che vuoi che ti faccia? Se parlo ti secchi... Debbo stare qua? Ebbene, stiamo qua...
Soffiò su la candela e sedé su una seggiola presso il canterano. Il gatto gli saltò sulle spalle.
Rocco passeggiava per lo stanzone, mordendosi a quando a quando le mani o facendo con le pugna serrate gesti di rabbia impotente. Piangeva.
Niccolino, seduto ancora a tavola, sotto la lampada, arrotondava con l'indice pallottoline di mollica.
- Non hai voluto darmi ascolto, - riprese, dopo un lungo silenzio, il padre. - Hai... ehm...! sì, hai voluto fare come me... Mi viene quasi da ridere, che vuoi farci? Ti compatisco, bada! Ma è stata, Rocco mio, una riprova inutile. Noi Pentàgora... - quieto, Fufù, con la coda! noi Pentàgora con le mogli non abbiamo fortuna.
Tacque un altro pezzo, poi ripigliò lentamente, sospirando:
- Già lo sapevi... Ma tu credesti d'aver trovato l'araba fenice. E io? Tal quale! E mio padre, sant'anima? Tal quale!
Fece con una mano le corna e le agitò in aria.
- Caro mio, vedi queste? Per noi, stemma di famiglia! Non bisogna farsene.
A questo punto, Niccolino, che seguitava ad arrotondare tranquillamente pallottoline, sghignò.
- Sciocco, che c'è da ridere? - gli disse il padre, levando sù dal petto il testone raso, sanguigno. - È destino! Ognuno ha la sua croce. La nostra, è qua! Calvario.
E si picchiò sul capo.
- Ma, alla fin fine, sciocchezze! - seguitò. - Croce che non pesa, è vero, Fufù? quando abbiamo cacciato via la moglie. Anzi, porta fortuna, dicono. La gente piglia moglie, come si piglia in mano la fisarmonica, che pare chiunque debba saperla sonare. Sì, a stendere e a stringere il màntice, non ci vuol molto; ma a muover le dita di quella maniera per pigiare su i tasti, lì ti voglio! Dicono che sono cattivo. Ma perché sono cattivo? Come sto in pace io, così vorrei che stésse in pace tutto il mondo. Ci sono però di questi tali, che quando possono dir male di uno, pare che ingrassino. Del resto a me mi fa più utile chi mi biasima. Sai che faccio? Prendo il biasimo e me l'applico qua.
Si picchiò sulla natica. E poco dopo ripigliò:
- Chi vuol morire, muoja. Io m'ingegno di campare. Salute, ne abbiamo da vendere e, per tutto il resto, la grazia di Dio non ci manca. Si sa, per altro, che le mogli è il loro mestiere d'ingannare i mariti. Quand'io sposai, figlio mio, tuo nonno mi disse precisamente quel che poi io ripetei a te, parola per parola. Non volli ascoltarlo, come tu non hai voluto ascoltarmi. E si capisce! Ognuno vuol farne esperienza da sé. Che cosa credevo io che fosse Fana, mia moglie? Precisamente ciò che tu, Roccuccio mio, credevi che fosse la tua: una santa! Non ne dico male, né gliene voglio: ne siete testimonii. Do a vostra madre tanto che possa vivere, e permetto che voi andiate a visitarla una volta l'anno, a Palermo. M'ha reso in fin dei conti un gran servizio: m'ha insegnato che si deve obbedire ai genitori. Dico perciò a Niccolino: «Tu almeno, figliuolo mio, sàlvati!».
Quest'uscita non piacque a Niccolino, che già faceva all'amore:
- Ma pensate a vojaltri, voi, che a me ci penso io!
- A lui, oibò! a lui... ah, figlio mio! - esclamò sogghignando il Pentàgora. - Ma San Silvestro... Ma San Martino...
- Va bene, va bene, - rispose Niccolino irritatissimo. - Ma a noi la mamma, poveretta, che male ha fatto, se pur è vero che...?
Niccoli', ora mi secchi! - lo interruppe il padre, levandosi in piedi. - È destino, sciocconaccio! E io parlo per il tuo bene. Prendi, prendi moglie, se tre esperienze non ti bastano, e - se sei davvero dei Pentàgora - vedrai!
Si liberò del gatto con una scrollata, tolse dal canterano la candela e, senza neanche accenderla, scappò via.
Rocco aprì la finestra e si mise a guardar fuori a lungo.
La notte era umida. In basso, dopo il ripido degradare delle ultime case giù per la collina, la pianura immensa, solitaria, si stendeva sotto un velo triste di nebbia, fino al mare laggiù, rischiarato pallidamente dalla luna. Quant'aria, quanto spazio fuori di quell'alta finestra angusta! Guardò la facciata della casa, esposta lassù ai venti, alle piogge, malinconica nell'umidore lunare; guardò in basso la viuzza nera, deserta, vegliata da un solo fanale piagnucoloso; i tetti delle povere case raccolte nel sonno; e si sentì crescere l'angoscia. Rimase attonito, quasi con l'anima sospesa, a mirare; e come, dopo un violento uragano, lievi nuvole vagano indecise, pensieri alieni, memorie smarrite, impressioni lontane gli s'affacciarono allo spirito, senza precisarsi tuttavia. Pensò che lì, in quella straducola angusta, quand'egli era bambino, proprio sotto a quel fanale dal fioco lume vacillante, una notte, era stato ucciso un uomo a tradimento; che poi una serva gli aveva detto che lo spirito di quell'ucciso era stato veduto da tanti; e lui ne aveva avuto una gran paura e per parecchio tempo non aveva più potuto affacciarsi di sera a guardare in quella via... Ora la casa paterna, lasciata da circa due anni, lo riprendeva, con tutte le reminiscenze, con l'oppressione antica. Egli era libero di nuovo, come ritornato scapolo. Avrebbe dormito solo, quella notte, nella cameretta nuda, nel lettuccio di prima: solo! La sua casa maritale, coi ricchi mobili nuovi, era rimasta vuota, buja... le finestre erano rimaste aperte... e quella luna, calante tra le brume sul mare lontano, doveva vedersi certo anche dalla sua camera da letto... Il suo letto a due... tra i cortinaggi di seta rosea... ah! Strizzò gli occhi e serrò le pugna. E domani? che sarebbe stato domani, quando tutto il paese avrebbe saputo ch'egli aveva scacciato di casa la moglie infedele?
Là, col capo immerso nel vasto silenzio malinconico della notte punto qua e là e vibrante da stridi rapidi di pipistrelli invisibili, con le pugna ancora serrate, Rocco gemette, esasperato:
- Che debbo fare? che debbo fare?
- Scendi giù dall'Inglese - insinuò piano e quieto Niccolino, che se ne stava ancor presso la tavola, con gli occhi fissi su la tovaglia.
Rocco stolzò alla voce, e si voltò, stordito da quel consiglio e dal vedere il fratello ancora lì, impassibile, sotto la lampada.
- Da Bill? - gli domandò, accigliato. - E perché?
- Io, nel tuo caso, farei un duello, - disse con aria semplice e convinta Niccolino, raccogliendo nel cavo della mano tutte le pallottoline arrotondate e andando a buttarle dalla finestra.
- Un duello? - ripeté Rocco, e stette un poco a pensare, impuntato; poi proruppe: - Ma sì, ma sì, ma sì, dici bene! Come non ci avevo pensato? Sicuro, il duello!
Dalla chiesa vicina giunsero i rintocchi lenti della mezzanotte.
- Mezzanotte.
- L'Inglese sarà sveglio.
Rocco raccolse il cappello ammaccato dal pavimento.
- Ci vado!
Per la scala, al bujo, Rocco Pentàgora rimase un tratto perplesso, se picchiare all'uscio dell'Inglese o a quello più giù d'un altro pigionante, il professor Blandino.
Antonio Pentàgora aveva edificato quella sua casa, che pareva un torrione, a piano a piano. Al quarto, per il momento, s'era arrestato. Ma, o che la casa rimanesse veramente fuori mano, o che nessuno volesse aver da fare col proprietario, il fatto era che al Pentàgora non riusciva mai d'appigionarne un quartierino.
Il primo piano era vuoto da tant'anni; del secondo una sola camera era occupata da quel professor Blandino, affidato alle cure della signora Popònica; del terzo, parimenti una sola, dall'inglese Mr H.W. Madden, detto Bill.
Tutte le altre, qua e là, dai topi. Il portinajo aveva la dignitosa gravità d'un notajo; ma, cinque lire al mese; per cui non salutava mai nessuno.
Luca Blandino, professore di filosofia al Liceo, su i cinquant'anni, alto, magro, calvissimo, ma in compenso enormemente barbuto, era un uomo singolare, ben noto in paese per le incredibili distrazioni di mente a cui andava soggetto. Aggiogato per necessità e con triste rassegnazione all'insegnamento, assorto di continuo nelle sue meditazioni, non si curava più di nulla né di nessuno. Tuttavia, chi avesse saputo all'improvviso impressionarlo, così da farlo per poco discendere dalla sfera di quei suoi nuvolosi pensieri, avrebbe potuto tirarlo dalla sua e farsene ajuto prezioso e disinteressato. Rocco lo sapeva.
Uomo non meno singolare era il Madden, professore anche lui, ma privato, di lingue straniere. Dava a pochissimo prezzo lezioni d'inglese, di tedesco, di francese, bistrattando l'italiano. Piazza internazionale, dunque, quella sua fronte smisurata. I capelli aurei, finissimi, pareva gli si fossero allontanati dai confini della fronte e dalle tempie per paura del naso adunco, robusto; ma in cerca di loro, dalla punta delle sopracciglia serpeggiavano sù sù, come per andarsi a nascondere, due vene sempre gonfie. Sotto le sopracciglia s'appuntavano gli occhietti grigio-azzurri, a volta astuti, a volta dolenti, come gravati dalla fronte. Sotto il naso, i baffetti color di fieno, tagliati rigorosamente intorno al labbro. Nonostante la fronte monumentale, la natura aveva voluto dotare il corpo del signor Madden d'una certa agilità scimmiesca; e il signor Madden subito aveva tratto partito anche di questa dote: nelle ore d'ozio, dava lezioni di scherma; ma così, senz'alcuna pretesa, badiamo!
Probabilmente neppur lui, povero Bill, avrebbe saputo ridire come mai dalla nativa Irlanda si fosse ridotto in un paese di Sicilia. Nessuna lettera mai dalla patria! Era proprio solo, con la miseria dietro, nel passato, e la miseria davanti, nell'avvenire. Così abbandonato alla discrezione della sorte, pure non s'avviliva. In verità, il signor Madden aveva in mente, per sua ventura, più vocaboli che pensieri; e se li ripassava di continuo.
Rocco - come Niccolino aveva supposto - lo trovò sveglio.
Bill stava seduto su un vecchio, sgangherato canapè davanti a un tavolino, con la gran fronte illuminata da una lampada dal paralume rotto; senza scarpe, teneva una gamba accavalciata su l'altra e dava morsi da arrabbiato a un panino imbottito, guardando religiosamente una bottiglia sturata di pessima birra, che gli stava davanti.
Ogni mattone, in quella camera, reclamava la scopa e una cassetta da sputare per il signor Madden; reclamavano le pareti e i pochi decrepiti mobili uno spolveraccio; reclamava il letticciuolo dai trespoli esposti le solide braccia d'una servotta, che lo rifacessero almeno una volta la settimana; reclamavano gli abiti del signor Madden non una spazzola, ma una brusca, piuttosto, da cavallo.
Le vetrate dell'unica finestra erano aperte; le persiane, accostate. Le scarpe del signor Madden, una qua, una là, in mezzo alla camera.
- Oh Rocco! - esclamò con la barbara pronunzia, nella quale gargarizzava, schiacciava, sputava vocali e consonanti, con sillabazione spezzata, come se parlasse con una patata calda in bocca.
- Scusa, Bill, se vengo così tardi, - disse Rocco, con faccia cadaverica. - Ho bisogno di te.
Bill ripeteva quasi sempre le ultime parole del suo interlocutore, come per agganciarvi la risposta:
- Di me? Un momento. È mio dovere di rimettere prima le scarpe.
E guardò, sconcertato, la ferita su la fronte dell'amico.
- Ho avuto una lite.
- Non capisco.
- Una lite! - urlò Rocco, additando la fronte.
- Ah, una lite, benissimo: a strife, der Streite, une mêlée, yes, capito benissimo. Si dice lite in italiano? Li-te, benissimo. Che cosa posso io fare?
- Ho bisogno di te.
- (Li-te). Non capisco.
- Voglio fare un duello!
- Ah, un duello, tu? Benissimo capito.
- Ma non so, - riprese Rocco, - non so proprio nulla di... di scherma. Come si fa? Non vorrei farmi ammazzare come un cane, capisci?
- Come un cane, benissimo capito. E allora qualche... coup? Ah, un colpo - si dice? Sì, infallible, io te lo insegnare. Molto semplice, sì. Subito?
E Bill, con una mossa da scimmia ben educata, staccò dalla parete due vecchi fioretti arrugginiti.
- Aspetta, aspetta... - gli disse Rocco, turbandosi alla vista di quei ferracci. - Spiegami, prima... Io sfido, è vero? oppure, schiaffeggio e sono sfidato. I padrini discutono, si mettono d'accordo. Duello alla sciabola, poniamo. Si va sul luogo stabilito. Ebbene, che si fa? Ecco, voglio saper tutto, con ordine.
- Sì, ecco, - rispose il Madden, a cui l'ordine, parlando, piaceva, per non imbrogliarsi; e si mise a spiegargli alla meglio, a suo modo, i preliminari d'un duello.
- Nudo? - domandò a un certo punto Rocco, costernatissimo. - Come nudo? Perché?
- Nudo... di camicia, - rispose il Madden. - Nudo il... come si dice? Le tronc du corps... die Brust... ah, yes, torso, il torso. O puramente, senza nudo, sì... come si vuole.
- E poi?
- Poi? Eh, si duellare... La sciabla; in guardia; à vous!,
- Ecco, - disse Rocco, - io, per esempio, prendo la sciabola; avanti, insegnami... Come si fa?
Bill gli dispose bene, prima di tutto, le dita di tra le basette. Rocco si lasciò piegare, stirare, atteggiare come un automa. Si avvilì presto però in quelle insolite positure stentate. - Cado! cado! - e il braccio teso gli si stancava, gli s'irrigidiva; il fioretto, possibile? pesava troppo. - Eh! eh! olà! oilà, - incitava intanto il Madden. - Aspetta, Bill! - Nel dare quel colpo, il piede sinistro come poteva star fermo? E il destro, Dio! Dio! Non poteva più ritrarsi in guardia! A ogni movimento il sangue gli affluiva con impeto alla ferita della fronte. Intanto, alle pareti, i decrepiti mobili pareva che sussultassero, sbalorditi, agli sbalzi ridicoli delle ombre mostruosamente ingrandite di quei duellanti notturni.
Bum! bum! bum! - alcuni colpi bussati con rabbia sotto il pavimento.
Il Madden ristette, scosciato, con la gran fronte imperlata di sudore. Tese l'orecchio.
- Abbiamo svegliato il professore Luca!
Rocco si era abbandonato, rifinito, su una seggiola, con le braccia ciondoloni, la testa cascante, appoggiata alla parete; quasi in deliquio. Pareva, in quell'atteggiamento, che avesse già terminato il duello con l'avversario e ricevuto una ferita mortale.
- Abbiamo svegliato il professor Luca, - ripeté Bill, guardando Rocco, a cui tale notizia pareva non arrecasse alcuna spiacevole sorpresa.
- Andrò io dal Blandino, - diss'egli alla fine, levandosi in piedi. - Bisogna sbrigar tutto prima di domani. Il Blandino mi farà da testimonio. Addio; grazie, Bill. Conto anche su te, bada.
Il Madden accompagnò col lume in mano l'amico fino alla porta; aspettò sul pianerottolo che il professor Blandino venisse ad aprire e, allorché la porta del secondo piano fu richiusa, si ritirò facendo un suo gesto particolare con la mano, come se si cacciasse una mosca ostinata dalla punta del naso.
Luca Blandino accolse di malumore quella visita notturna. Borbottando, barcollando, introdusse Rocco per le altre stanze deserte, nella sua camera; poi, col barbone grigio abbatuffolato e gli occhi gonfii e rossi dal sonno interrotto, sedé sul letto con le gambe nude, pelose, penzoloni.
- Professore, abbia pietà di me, e mi perdoni, - disse Rocco. - Mi metto nelle sue mani.
- Che t'è accaduto? Tu sei ferito! - esclamò il Blandino con voce rauca, guardandolo con la candela in mano.
- Sì... ah se sapesse! Da dieci ore, io... Sa, mia moglie?
- Una disgrazia?
- Peggio. Mia moglie m'ha... L'ho scacciata di casa...
- Tu? Perché?
- Mi tradiva... mi tradiva... mi tradiva...
- Sei matto?
- No! che matto!
E Rocco si mise a singhiozzare, nascondendo la faccia tra le mani e nicchiando:
- Che matto! che matto!
Il professore lo guardava dal letto, non credendo quasi agli occhi suoi, ai suoi orecchi, così soprappreso nel sonno.
- Ti tradiva?
- L'ho sorpresa che... che leggeva una lettera... Sa di chi? dell'Alvignani!
- Ah birbante! Gregorio? Gregorio Alvignani?
- Sissignore - (e Rocco inghiottì). - Ora, capisce, professore... così... così non può, non deve finire! Egli è partito.
- Gregorio Alvignani?
- Scappato, sissignore. Questa sera stessa. Non so dove, ma lo saprò. Ha avuto paura... Professore, mi metto nelle sue mani.
- Io? Che c'entro io?
- Una soddisfazione, professore, io una soddisfazione certamente me la devo prendere, di fronte al paese. Non le pare? Posso restar così?
- Piano, piano... Càlmati, figlio mio! Che c'entra il paese?
- L'onore mio, professore! Le pare che non c'entri? Debbo difendere il mio onore... di fronte al paese...
Luca Blandino scrollò le spalle, seccato.
- Lascia stare il paese! Bisogna riflettere, ragionare. Prima di tutto: ne sei ben sicuro?
- Ho le lettere, le dico, le lettere che lui le buttava dalla finestra!
- Lui, Gregorio? come un ragazzino? Ma mi dici davvero? Ohi, ohi, ohi... Le buttava le lettere dalla finestra?
- Sissignore, le ho qua!
- Ma guarda, guarda, guarda... E tua moglie, santo Dio! Non è figlia di Francesco Ajala, tua moglie? Bada, caro mio, che quello è una bestia feroce... Adesso nasce un macello... Che m'hai detto? Che m'hai detto? Vah... vah... vah... Dalla finestra? Le buttava le lettere dalla finestra, come un ragazzino?
- Posso contare su lei, professore?
- Su me? Perché? Ah tu vorresti fare... Aspetta, figliuolo mio, bisogna ragionare... Mi hai tutto scombussolato... Non è possibile, adesso...
Scese dal letto; accostò a Rocco e, battendogli una mano su la spalla, aggiunse:
- Torna sù, figliuolo mio... Tu soffri troppo, lo vedo... Domani, eh? con la luce del sole. Ne riparleremo domani; ora è tardi... Va' a dormire, se ti sarà possibile... va' a dormire, figlio mio...
- Ma mi prometta fin d'ora... - insisté Rocco.
- Domani, domani, - lo interruppe di nuovo il Blandino, spingendolo verso l'uscio. - Ti prometto... Ma che birbante, oh! Le lettere gliele buttava dalla finestra? Bisogna aspettarsi di tutto a questo mondaccio, caro mio! Povero Roccuccio, ma guarda! ti tradiva... Sù, sù, andiamo...
- Professore... non m'abbandoni, per carità! Conto su lei!
- Domani, domani, - ripeté il Blandino. - Povero Roccuccio... la vita, eh? che miseria... Buona notte, figliuolo mio, buona notte, buona notte...
E Rocco sentì chiudersi dietro le spalle la porta, piano piano, e restò al bujo, sul pianerottolo, in mezzo alla scala silenziosa, smarrito. Nessuno voleva più saperne, di lui?
Sedette, come un bambino abbandonato, su i primi scalini della branca, presso la ringhiera, coi gomiti su le ginocchia e la testa tra le mani. Il bujo, il silenzio, la positura stessa gli strinsero il cuore, gli fecero cader l'animo in un avvilimento profondo. Contrasse il volto e si mise a piangere e a lamentarsi sommessamente:
- Ah, mamma mia! mamma mia!
Pianse e pianse. Poi si cercò in tasca e ne trasse una lettera tutta brancicata. Accese un fiammifero e si provò a leggere; ma avvertì su la mano il contatto di qualcosa umida, lievissima, un po' vischiosa; e alzò il fiammifero per veder che fosse. Un filo di ragno, lunghissimo, che pendeva dall'alto della scala. Si distrasse a guardarlo, e non avvertì al fiammifero che gli si consumava intanto tra le dita; si scottò e, al bujo, gridò più volte:
- Maledetto! maledetto! maledetto!
Accese un altro fiammifero e si mise a leggere la lettera, ch'era scritta di minutissimo carattere, su una carta cinerea, ruvida in vista. Lesse macchinalmente le prime parole: «Ti scrivo da tre mesi (son già tre mesi) e ancora...». Saltò alcuni righi; fissò lo sguardo su un «: Quando?» sottolineato, poi buttò il fiammifero e restò con la lettera in mano e gli occhi sbarrati nel bujo.
Rivedeva la scena.
Aveva sforzato l'uscio con un violento spintone, gridando: «La lettera! dammi la lettera!». Al fracasso, Marta s'era fatta riparo dello sportello aperto del grande armadio a muro presso al quale leggeva. Egli aveva tratto in avanti con forza lo sportello e le aveva attanagliato i polsi. «Che lettera? Che lettera?» aveva ella balbettato, guardandolo atterrita negli occhi. Ma la carta, spiegazzata nell'improvviso terrore e impigliata tra le vesti e un palchetto dell'armadio era caduta come una foglia secca sul pavimento. Ed egli, nel lanciarsi a raccoglierla, s'era ferito alla fronte, urtando contro lo sportello aperto dell'armadio. Accecato dall'ira, dal dolore, aveva allora inveito contro di lei, senza riguardo alla maternità incipiente, e la aveva senz'altro cacciata di casa a urtoni, a percosse.
Poi, l'altra scena, col suocero. Era andato a mostrargli quella e le altre lettere dell'Alvignani rinvenute nell'armadio. Non c'era colpa? «E in che consiste allora la colpa per lei?» gli aveva domandato. «Scusi, forse perché è sua figlia?». Francesco Ajala gli era saltato addosso come una tigre. «Mia figlia? che dici? mia figlia una sgualdrina?» Poi s'era ammansato. «Bada, Rocco, bada a quello che fai... Vedi di che si tratta? Lettere... E tu rovini due case: la tua e la mia. Forse puoi ancora perdonare...» «Ah sì? e la perdonerebbe lei, al mio posto, se invece d'esser padre fosse marito?» E Francesco Ajala non aveva saputo rispondergli.
«Lui no, e io sì? Oh bella!» pensò Rocco, nel silenzio della scala.
«È finita! ora è finita!»
Si levò in piedi e, accendendo un altro fiammifero, si mise a risalire la scala, con gli occhi alla lettera che aveva ancora in mano.
«Che vorrà dire?...» Domandava a se stesso, cercando di decifrare il motto dell'Alvignani inciso in rosso in capo al foglio:
NIHIL - MIHI - CONSCIO.