Come fu che il re di Itaca, Ulisse, dopo dieci anni di guerra, riuscì con un abile stratagemma a prendere la città di Troia.
Tomaso Monicelli
Come fu che il re di Itaca, Ulisse, dopo dieci anni di guerra, riuscì con un abile stratagemma a prendere la città di Troia.
Dieci lunghi anni combatterono i Greci contro la città di Troia senza riuscire a scalarne le alte mura, a penetrarvi dentro, a vincerne la resistenza, ad appiccarvi il fuoco, a raderla al suolo, a distruggerla con i suoi abitanti.
Ciò avvenne migliaia e migliaia d'anni fa, in un tempo lontanissimo.
Nella guerra durata dieci anni morirono i più insigni campioni dell'esercito greco e dell'esercito troiano, gli eroi più eccelsi, gli uomini più coraggiosi e più forti, il fiore dei due popoli nemici.
Allora non si combatteva, come adesso, con i cannoni e con i fucili: non c'erano telegrafo e telefono, corazzate e aeroplani, treni e automobili. I guerrieri combattevano corpo a corpo, armati di lunghe terribili aste, di pungenti spade e di grandi archi. I maggiori e i migliori entravano in battaglia sopra un cocchio tirato da due cavalli: vinceva chi era meglio dotato di forza fisica e di coraggio morale, e nei momenti in cui la lotta si faceva più tremenda, ogni oggetto – fosse sasso o bastone – era buono per colpire. Cosicché la battaglia si scomponeva in tante risse sanguinose.
Avveniva anche che, per riposo dei due eserciti nemici stanchi del lungo combattere, uscissero a misurarsi in campo aperto, come in un singolare duello, i due maggiori capi delle due schiere nemiche. E un giorno, nella guerra che stiamo raccontando, Achille capo dei Greci sfidò Ettore capo dei Troiani.
Erano già nove anni che la guerra durava, con alterna fortuna, senza che i Greci assalitori potessero impadronirsi della città di Troia, senza che i Troiani potessero ricacciare i Greci nel mare da dove erano venuti.
Achille era di corpo fortissimo e d'animo spietato: Ettore era guerriero ammirabile, ma aveva il cuore dolce e caldissimi gli affetti familiari. Mentre dall'una e dall'altra parte gli eserciti nemici assistevano allo scontro tra i due, Achille rovesciò Ettore con spaventoso furore e lo colpì a morte. Quindi legò il cadavere al proprio cocchio di vincitore, lo trascinò – orrendo spettacolo – intorno alle mura di Troia, fra il pianto dei Troiani che lamentavano il triste fato del loro eroe e l'esultanza dei Greci che inneggiavano al valore del loro illustre campione.
Da quel momento il destino di Troia fu scritto; la bella e sfortunata città sarebbe presto caduta nelle avide mani dei Greci. La morte di Ettore toglieva a Troia il senno più esperto, il braccio più valido.
Così accadde, che nel decimo anno di guerra, Troia finisse. In quale modo vedremo più avanti.
La città di Troia era munita di alte mura e torri, tutta chiusa e custodita all'intorno, potentissima e incrollabile ai ripetuti sforzi nemici. Più e più volte i Greci, appoggiando lunghe e solide scale alle mura, avevano tentato la scalata, ma erano sempre stati ricacciati indietro dai Troiani difensori.
Bisognava, dunque, rompere la resistenza dell'eroica città non più con la forza, risultata vana e dispendiosa di vite, ma con l'astuzia.
Maestro di astuzie era, tra i capi dell'esercito greco, Ulisse re di Itaca, piccola isola del mare Ionio. Questi, chiamati a parlamento tutti i condottieri greci, così parlò:
«Volge già il decimo anno che noi combattiamo intorno alle mura di Troia, senza riuscire a penetrarvi. Morti sono i nostri più begli eroi, e fra tutti lo splendidissimo Achille, onore delle nostre contrade, ucciso a tradimento dal troiano Paride vendicatore del fratello Ettore. Le nostre schiere, stanche, deluse e disfatte dalla lunga inutile guerra, pensano alla cara patria, alla casa, alla famiglia da tanto tempo abbandonate, e domandano a gran voce di far vela per il ritorno. È, quindi, necessario prendere e distruggere Troia per non tornare al suolo nativo col danno, la vergogna e l'insulto della patria sconfitta. E io so come prendere e distruggere l'odiata città».
E disse come. Tutti risero dentro di loro e applaudirono alle parole di Ulisse. Accettato che fu il suo consiglio, s'apprestarono a metterlo in atto.
Sospese le operazioni di guerra, i condottieri greci si diedero a costruire in riva al mare un grandissimo cavallo di legno, alto come una montagna. I Troiani, dalle loro mura, stavano a guardare stupiti e ammirati il meraviglioso lavoro, domandandosi la misteriosa ragione d'una tale opera mai vista prima. Allora i Greci sparsero la voce che essi costruivano quel gran cavallo per offrirlo in dono ai loro Dei e avere in compenso la grazia di ritornare sani e salvi alla loro patria e alle loro case, poiché di guerra erano sfiniti. Gioirono gli ingenui Troiani – ché non c'era più Ettore ad ammaestrarli – udendo che i nemici avrebbero abbandonato la guerra; si compiacquero della conquistata pace e ammirarono la vasta mole di legno, senza sospetto. Infelici!, ché l'astuzia di Ulisse aveva loro preparato rovina e morte.
Il grandissimo cavallo fu condotto a termine: opera davvero solenne. Calata la notte, i Greci, col favore dell'oscurità, introdussero nel ventre enorme del cavallo un gran numero d'armi e d'armati. Entrarono, si rinchiusero là dentro, come in una cieca grotta, invisibili a tutti, i guerrieri più coraggiosi e più forti, i prescelti per sorte e valore dell'esercito greco, fra i quali il re d'Itaca Ulisse. Questi, che aveva immaginato l'ingegnoso stratagemma, aveva voluto mettersi a capo dell'audace schiera, insidiosamente nascosta nel capace grembo del cavallo.
Intanto, l'esercito greco, salito sulle sue navi, aspettò che ritornasse il giorno, e, davanti ai Troiani, che ancora guardavano con giubilo dalle mura della loro liberata città, spiegò le vele e s'allontanò sul mare. Ma invece di tornare ai lidi lontani della patria, l'armata greca si nascose e aspettò in un remoto seno dell'isola di Tènedo, la quale sorgeva davanti a Troia, a poca distanza del lido troiano. Qui – seguendo il piano d'astuzie di Ulisse – i Greci rimasero in grandissimo segreto.
Il cavallo di legno fu lasciato sulla riva del mare. E allora i Troiani, gridando di gioia e abbracciandosi l'un l'altro, uscirono dalle porte della città, lieti di vedere sgombri i lidi dal decennale nemico, e s'avvicinarono al gran cavallo di legno, desiderosi d'ammirarlo da vicino.
Timete, uno dei più valenti condottieri troiani, dopo aver udite le meraviglie e i discorsi di tutti, disse:
«Troiani, portiamo il ricco dono dei Greci dentro le mura della nostra città, innalziamolo sull'alta rocca, e offriamolo ai nostri dèi, in segno di pace».
Una parte del popolo applaudì alla proposta di Timete; ma altri condottieri troiani si fecero innanzi a contrastare il consiglio di Timete. E uno di essi propose:
«Ho in sospetto il cavallo offerto dai Greci, e temo che racchiuda un tradimento. Precipitiamolo nel fondo del mare».
E un altro:
«Diamogli fuoco, e sia distrutto dalle fiamme ardenti». E un altro ancora:
«Foriamogli il petto e laceriamogli il fianco. Se racchiude un tradimento, il tradimento sarà svelato».
Il popolo stava incerto e dubbioso tra gli opposti pareri, quand'ecco sopraggiungere dalla rocca di Troia, a grandi passi, un vecchio sacerdote, di nome Laocoonte.
«O cieca e sfortunata gente troiana – gridò di lontano – volete credere ai doni dei Greci? Io vi dico che i doni dei Greci e di Ulisse, maestro di astuzie, sono degli inganni. E questo enorme cavallo di legno o nasconde dei Greci, o è macchina infernale per abbattere le nostre mura, o è scala e torre pronta per assalirci di sopra alle mura, o è spia da introdurre nella nostra città. Orsù, interrompete le meraviglie giulive e i vani discorsi, e distruggete l'inganno».
Dicendo queste infiammate parole, il vegliardo s'era avvicinato al gran cavallo, tra lo stupore e lo sbigottimento della moltitudine. Armato d'una terribile asta, l'avventò contro il ventre del cavallo, e lo colpì. Come fosse stato vivo, il cavallo scrollò e tremò al colpo, e tutto rintronò di armi dentro il ventre incavato.
Si fece un grande silenzio: l'inganno stava per essere svelato. Il re di Troia, il venerando Priamo, apparve tra la folla. Tutti s'inchinarono rispettosamente. E già il re stava per parlare, quando una masnada di pastori paesani si fece avanti con alte grida, trascinando in mezzo un giovane prigioniero e presentandolo alla maestà di Priamo perché lo giudicasse.
La folla, dimentica del cavallo, delle parole di Laocoonte, del cupo rumore del ventre colpito dall'asta, e dell'inganno greco, si volse tutta in cerchio attorno al re e al prigioniero, incuriosita dal fatto nuovo.
Priamo guardò il prigioniero lacero, scalzo, insozzato di fango, con i segni del terrore sparsi sul volto, e gli domandò:
«Chi sei tu?».
Il prigioniero tremò da capo a piedi e rispose:
«Sono un greco».
Il popolo troiano urlò di rabbia. Ma il re fece segno di tacere e, rivolto al prigioniero, chiese:
«Il tuo nome?».
«Sinone».
«Sinone, come sei qui?»
Il prigioniero si sciolse in pianto disperato e, tra i singhiozzi, così disse:
«Sono un greco, soldato dell'esercito greco che ha lasciato questi lidi dopo tanta guerra, e non domando, o illustre re di Troia, se non questa grazia: che tu mi ascolti».
«Parla!» comandò il re.
«Obbedisco – rispose il greco e continuò: – Prima di spiegare le vele per il ritorno in patria, l'armata greca volle avere favorevoli gli dèi nel lungo viaggio per il mare e, pensando che le preghiere e i voti non bastassero, decisero di offrire ad Essi il corpo vivo e fiorente di un giovane. Dopo molto cercare, i capi scelsero me, e io ebbi l'annuncio che sarei stato ucciso e sacrificato ai nostri dèi, e che la mia morte sarebbe stata di protezione e di salvezza a tutto l'esercito nelle pericolose vie del mare. Io piansi e implorai la vita: inutilmente. Allora aspettai la notte, fuggii dal campo greco, e mi nascosi in un pantano. Dal mio nascondiglio, vidi partire le navi greche verso la cara patria dove i miei figli e il mio padre invano mi aspetteranno. Sorto il giorno, e scomparsa l'armata dei miei carnefici, andai da questi pastori. Ora, eccomi ai tuoi piedi, re di Troia. Abbi pietà di me e delle mie sofferenze».
Il truce racconto, il pianto dell'infelice, il suo miserando stato commossero il re e la moltitudine dei Troiani. Il prigioniero fu sciolto e liberato dai ferri. E il buon re, parlandogli dolcemente, gli disse:
«Poiché tu sei greco, tu devi sapere a qual fine fu costruito questo cavallo di così smisurata grandezza. È inganno contro di noi Troiani o è offerta agli dèi? Se tu dirai il vero, io ti compenserò d'ogni favore e, greco o non greco, sarai d'ora in poi dei nostri».
Il falso prigioniero – mandato qui da Ulisse per la buona riuscita del suo stratagemma – levò le braccia al cielo e gridò:
«Re di Troia, io ti giuro per gli dèi che quel cavallo costruito dai Greci non racchiude nessun inganno contro di te. È una sacra offerta, l'adempimento d'un voto per placare le ire degli dèi e volgere in prossima fortuna il triste risultato della guerra. I Greci ritorneranno a combattervi: e se voi, o Troiani, distruggerete questo cavallo, avrete offeso gli dèi e sarete battuti e vinti; se invece lo trarrete sulla vostra rocca, dentro le mura della vostra città, gli dèi ne saranno lieti come di una vostra offerta e, come avete vinto ora vincerete anche domani, al ritorno dell'armata greca».
A queste bugiarde parole, il popolo troiano circondò il re con rispettose preghiere:
«Illustre Priamo, re nostro, concedi che il grande cavallo dei Greci sia introdotto dentro le nostre mura e issato sull'alta rocca di Troia, a perenne difesa nostra. Concedi, o re, concedi!».
Il vecchio sacerdote Laocoonte si gettò tra il popolo e il re:
«No!» urlò. «No, Priamo, non concedere. Se tu concedi, è la rovina di Troia».
Ma un'orribile morte doveva soffocare la voce del saggio sacerdote, che prevedeva l'inganno di Ulisse e la fine di Troia. Due immani serpenti, vibrando lingue di fuoco e spaventosi fischi, apparvero sulle acque del mare, dalla parte di Tènedo. Tremendi a vedersi, essi salirono la riva, e si diressero verso Laocoonte. Due teneri figlioletti del sacerdote furono presi e stritolati nelle tenaci spire dei due serpenti, i quali s'avventarono poi contro Laocoonte, venuto in soccorso dei figli, e l'avvinghiarono togliendogli il fiato e succhiandogli il sangue. Egli cadde con un ruggito di dolore, spento.
I Troiani, urlando di terrore a quella vista si dispersero per i lidi; e dalle bocche spalancate dei fuggiaschi uscì un grido unico e immenso:
«Plachiamo l'ira degli dèi! Il cavallo dei Greci dentro Troia! Il cavallo dentro Troia!».
Lo stratagemma del re di Itaca Ulisse sortiva il suo effetto. Spento Laocoonte, il re e il popolo deliberarono di portare il cavallo dei Greci sulla rocca di Troia. L'orrenda morte del vecchio sacerdote, che aveva predicato la distruzione del cavallo di legno, parve un avvertimento del cielo, un castigo degli dèi contro le parole e i consigli di Laocoonte. Onde i Troiani, dopo aver levato preghiere e canti di fede, si accinsero alla difficile impresa.