La notte che seguì al più grande avvenimento della sua vita, Fausto Bragia non potè chiuder occhio. Rievocava i più minuti particolari del fatto, insistentemente ripetendo:
— Possibile? È vero? — E si sentiva invadere da gioia quasi dolorosa. Non aveva sognato! Non era pazzo! Da cinque ore, la signora Ghedini, la impeccabile, la non mai sospettata signora Ghedini, era proprio sua amante!
Steso, ancora vestito, supino sul letto, con le mani sotto la testa e gli occhi socchiusi, respirava ansante per l'interno tumulto, e si abbandonava alla dolce sensazione d'appagamento e di felicità che lo prostrava e lo rendeva inerte.
Gli aveva gettato lei le braccia al collo, tutt'a un tratto! Gli si era mezza svenuta sul petto, balbettando: — Fausto! Fausto, come t'amo! Amami, Fausto! — Ed egli non avea saputo risponderle niente, sbalordito dall'inattesa e incredibile rivelazione, pauroso di quella buona fortuna che cangiava, di punto in bianco, la misera tristezza della sua vita di maestro di musica senza avvenire in gioia così grande da sembrargli piuttosto insidia per farlo ripiombare più basso.
E ancora caldo dei baci di lei, col sangue che gli affluiva ardentemente al cuore e al cervello, senza parola, senza movimento, continuava a tener chiusi gli occhi per meglio fantasticare e anche per tentar di calcolare le conseguenze di quell'atto. Era un primo passo nella via della ricchezza e della gloria, via dove fino a cinque ore avanti egli credeva che uno sventurato come lui non avrebbe messo mai piede?
Tutta la sua vita di mortificazioni, di umiliazioni, di stenti gli vertiginava nella memoria, quasi volesse dirgli: Finalmente!
Il padre morto quando egli aveva appena quattro anni; la madre passata a seconde nozze, infelice anche lei e impotente a dar aiuto al figliuolo affidato a uno zio prete, che gli faceva apprendere la musica e il canto per avere gratis un cantore e un organista nella sua chiesuola; poi, la meschina pensione concessagli dal Consiglio comunale per proseguire gli studi musicali in Firenze; e le angosce, le privazioni, quando il pagamento di essa, spesso ritardato, gli faceva passare giornate senza pane che nessuno aveva mai saputo perchè l'orgoglio era stato in lui più forte assai della fame.
Eppure, allora, pieno di fede nel suo ingegno e nell'arte, studiava, studiava, lusingato dal miraggio della gloria che gli acchetava talvolta fino i tormenti dello stomaco vuoto! E a ogni nuovo trionfo di opere musicali di grandi maestri viventi, a ogni lieto successo di giovani ignoti, per cui si appassionavano giornali, amatori e pubblico, egli sognava il suo primo buon successo e poi altri e poi altri, e non dubitava che il suo nome non sarebbe stato un giorno famoso e popolare come quelli del Verdi e del Gounod, e anche vicino a quello del Wagner, stimato più eccelso.
Avea dovuto presto disingannarsi!
Non che la gloria, non era arrivato per lui neppure quel tanto di materiale benessere da non farlo più vivere di fame, com'era vissuto tant'anni. Lasciando il Conservatorio, si era trovato in mezzo alla società simile a un uomo smarrito in una foresta e incapace di aprirsi un'uscita. Avea dovuto lottare continuamente con le stesse privazioni, con le stesse umiliazioni. Gli abiti che gli si spelavano addosso gli avevano impedito non solo di frequentare le persone che, probabilmente, avrebbero potuto aiutarlo, ma anche di accettare lezioni in case signorili dove avrebbe dovuto esporsi alle irrisioni della servitù. Poi, cosa più dura e più triste, si era sentito venir meno di giorno in giorno la volontà di studiare, di lavorare, e inaridire nella fantasia e nel cuore la limpida vena dell'ispirazione musicale, servita unicamente a procurargli qualche inutile trionfo fra una ristretta cerchia di conoscenti e di amici. Le sue melodie, difficili pei dilettanti di canto, non trovavano un editore!
Ah, quegli anni interminabili, senza un raggio di sole spirituale, senza conforti di solide amicizie, senza speranze! E intanto che gli si andava spegnendo in cuore l'unica consolazione rimastagli, l'amore per l'arte, come gli si erano rinfocolate dentro tutte le avidità della vita, tutte le ambizioni, tutte le aspirazioni materiali, quasi la povertà e l'abbandono gli acuissero più fortemente i bisogni della giovinezza, dell'organismo ben costituito, della avida intelligenza, del cuore assetato di affetti!
Era, a poco a poco, divenuto cattivo, invidioso, maligno, allo spettacolo della ingiustizia sociale per cui tanti e tanti che valevano, come uomini e come artisti, assai meno di lui, avevano potuto farsi avanti, formarsi una famiglia, ottenere un posto e ricevere onori immeritati. Li enumerava a uno a uno, se li schierava dinanzi per convincersi che il torto non era tutto suo se ormai non scriveva più una nota, se non ruminava più, come prima, romanze, sinfonie, opere intere, per tener vivo, almeno nel suo intimo, il sacro fuoco dell'arte.
— Attendere? Perchè? Non aveva atteso a bastanza?
A trent'anni si sentiva già vecchio, rifinito.
Quando era costretto a suonare le sue composizioni nel salotto dell'ingegnere Ghedini, per poco non gli sembrava che quei lavori appartenessero a un altro sè stesso, morto da parecchio tempo; gli occorreva un po' di sforzo per persuadersi che non mentiva dicendo che erano suoi.
Non entrava mai in quel salotto senza riflettere con amarezza che la gratitudine gl'imponeva d'andare a rappresentarvi la parte infima del buffone che diverte la brigata. L'ingegnere, che gli avea fatto l'elemosina di due camere nel proprio palazzo in via Nazionale, chiudendo l'uscio di comunicazione col resto dell'appartamento perchè il suo ospite fosse libero affatto, gli faceva spessissimo anche l'elemosina del pranzo! Aveva voluto così aiutare il figlio d'un amico e collega carissimo, morto nella miseria dopo varie fallite intraprese ferroviarie che avevano arricchito i suoi socii più scaltri di lui; e non gli era mai balenato alla mente quale atroce tortura quella sua generosità infliggesse a colui che doveva riceverla con la convinzione di non poter mai rimeritarla, e che la chiamava elemosina per rendersi più evidenti la desolazione del presente e l'orrore dell'avvenire.
Coloro che lo vedevano pallido, scarno, con gli occhi infossati e tanta tristezza nello sguardo e tanta ironia nella parola, pensavano che il fuoco dell'arte lo consumasse; e non badavano al ristretto repertorio delle sue composizioni ripetuto tante volte. Alle domande: — Maestro, che prepara? A quando la sua opera? — egli rispondeva scotendo il capo, sorridendo con quel sorriso stanco ed equivoco che non si capiva bene se fosse d'amor proprio lusingato, o di sconforto, o di disprezzo per chi osava insultarlo con tali importune parole. E allorchè l'ingegnere Ghedini, presentandolo a qualche nuovo arrivato, e levando a cielo l'ingegno musicale del suo amico, figlio d'un amico carissimo — non dimenticava mai di ripeterlo — mostrava immensa ammirazione pel giovane compositore e gli prognosticava splendidi successi, Fausto s'irritava. L'elogio e gli augurii non provenivano forse dalla vanità di far risaltare la propria generosità mostrandola ben adoprata? Per ciò egli si teneva sempre in disparte nel salotto, conversando sotto voce col giovane dottor Anguilleri, un po' orso anche lui; e di rado si mescolava alle animate discussioni d'ogni genere che la politica, l'arte, gli affari e gli avvenimenti mondani vi suscitavano, tutti i lunedì sera, negli affollati ricevimenti. Per ciò egli era grato alla signora Ghedini che pareva non accorgersi del suo ospite più di qualunque invitato, o amico, o frequentatore, quantunque non mancasse di mostrarsi entusiastica ammiratrice quand'egli cantava con voce fioca, ma perfettamente intonata, e con accento efficace, quella romanza che era il suo capolavoro, la Misera sei del Heine, degna di star accanto al Non t'odio, no! dello Schumann, di cui si poteva dire ben riuscita derivazione e compimento.
Entusiastici scoppiavano sempre gli applausi degli uditori; ma erano effimere soddisfazioni che gli procuravano di rado qualche lezione, che non gli aprivano nessuna strada a un posto qualunque, che non lo tiravano fuori di quel circolo incantato in cui pareva lo tenesse prigioniero una malefica potenza. E Fausto talvolta si compiaceva di sapervisi chiuso per scusare così l'inerzia, e il torpore rimproveratigli spesso dal dottor Anguilleri.
— Quando, finalmente il mio ingegno sarà morto e sepolto.... allora, forse!.....
Questo desolato: Allora, forse!.... egli aveva avuto occasione di ridirselo frequentemente negli ultimi mesi; e la sera avanti lo aveva ripetuto, insolito sfogo, a una bella signora recentemente conosciuta e che pareva interessarsi molto di lui, chi sa perchè! Probabilmente — egli pensava col suo eterno sospettare di tutto e di tutti — per farsi credere esperta di cose musicali più delle sue amiche che conversavano con deputati e senatori, che si lasciavano corteggiare da banchieri e da grossi appaltatori, per sordidi intenti — soggiungeva — se a lui, artista e povero, rivolgevano appena la parola.
Quella volta si era sfogato con tale violenza, gesticolando, alzando la voce, facendo scintillare negli occhi neri e profondi il gran rancore tanto tempo represso, che parecchi, cessando di conversare, si erano voltati verso l'angolo del salotto dove egli e quella signora sedevano in disparte, accanto al pianoforte. Si era voltato, all'improvviso silenzio, anche lui.
— Quel breve istante ha deciso della mia sorte! — rifletteva.
E, tornato così al punto di mossa della sua rapida rassegna retrospettiva, riprendeva a osservare con voluttà la scena che gli si ripeteva davanti agli occhi.
La signora Ghedini lo aveva guardato stupita e imbarazzata di vederlo uscire dall'abituale riserbo; poi, staccatasi dalle persone da cui era circondata, accorreva per fargli intendere — così gli era parso — la sconvenienza di quella tragica sfuriata, indovinata più dai gesti che dalle parole, tra i rumori dell'animatissima conversazione.
Invece!... Molto strano infatti gli era sembrato il contegno di lei: voce esitante, turbata; sguardi che pareva cercassero di penetrare lui e l'amica; sorriso freddo e doloroso... E le parole: Oh, non credergli! È artista e posa, come tutti gli artisti!
Stupido! Non che comprendere subito, si era anzi sdegnato, pensando che, con quell'apprezzamento fuori luogo, la signora Ghedini poteva fargli perdere la lezione fattagli sperare da quella signora all'uscita di collegio della sua figliuola. Stupido! E non si era accorto che gesti, voce e parole rivelavano — ella glielo aveva spiegato il giorno appresso — un sentimento di gelosa protezione, di difesa contro le seduzioni della Morlacchi, improvvisa e temuta rivale, persona di pochi scrupoli e avida delle avventure in cui il pretesto dell'irresistibile fascino dell'arte può facilmente velare un volgarissimo e passeggero trasporto di sensi!...
Che poteva saperne lui? Conosceva appena quella signora. E come mai sospettare che Paolina — già la chiamava così — la cui condotta non avea dato, fino a quel giorno, niente da ridire alla malignità della gente; donna di quarant'anni che, a guardarla, pareva la tranquillità e la saggezza in persona, con quel viso dolce e calmo, con quegli occhi sorridenti più delle stesse labbra quando esse sorridevano, con quella voce flautata che ingentiliva ogni cosa da lei detta, con quell'accento che copriva di benevola indulgenza fin le osservazioni più nude; come mai sospettare che Paolina covasse da lungo tempo un'ardente passione per chi non aveva fatto mai niente per meritarsela, e si era tenuto sempre in distanza da lei? Non aveva egli coinvolto anche lei in quel sordo rancore d'ingratitudine contro la discreta cordialità del marito che, per fargli accettare l'ospitalità, gli aveva fin detto: — Pagherai la pigione, quando potrai? —
Ed ecco: il maleficio che gli aveva amareggiato infanzia e giovinezza, e che stava per soffocargli nella mente ogni ideale d'arte dopo avergli soffocato ogni buon sentimento e ogni elevata ispirazione nel cuore, ecco, il terribile malefizio era già rotto finalmente!
Con la miracolosa virtù delle avvampanti parole: — Fausto, Fausto, come t'amo! Amami, Fausto! — gli era scaturita, tutt'a un tratto, nel cuore una limpida polla di affetto! E avrebbe voluto alzarsi da letto e guardarsi nello specchio per osservare il prodigio di ringiovanimento che doveva certamente essere avvenuto anche nella sua persona. Si sentiva rinvigorito, leggero, rifatto dentro e fuori dal tocco di quelle labbra bacianti, dalla stretta di quelle braccia che lo avevano cinto e premuto sul seno per non lasciarselo sfuggire più!
— Possibile! È dunque vero?
Non poteva frenarsi di ridomandarselo, supino, immobile con gli occhi serrati, in quella nottata che gli parve di pochi minuti quando la luce dell'alba cominciò a rischiarare la stanza dai vetri della finestra di cui egli avea lasciato aperti gli scuri.
Alcune settimane dopo, il dottor Anguilleri che non lo vedeva da un pezzo, incontratolo una mattina al Pincio, avea notato subito qualcosa di nuovo nell'aspetto dell'amico.
— Ebbene? — gli domandò.
— Ebbene che cosa? — rispose Fausto accigliandosi.
Ma il dottore non avea dovuto insistere molto per ricevere la confidenza d'un segreto già divenuto per Fausto insopportabile peso.
Egli si era recato colà per respirare a pieni polmoni un po' d'aria libera. Soffocava nella sua cameretta, appena l'uscio, cautamente aperto all'entrare, si richiudeva non meno cautamente all'andar via della signora Ghedini, che vi faceva improvvise e fugaci apparizioni durante la giornata, e sempre ansiosa, e sempre atterrita della propria audacia. Stupefatta di quel che era avvenuto e che ella non giungeva a spiegarsi, Paolina scongiurava Fausto di non tradirsi, di non perderla, di non far sparire, con un'imprudenza, quel sogno d'amore che così avrebbe potuto durare eternamente!
— Questo sogno, — gli aveva ella detto un giorno, — sarebbe principiato un anno addietro, se io avessi saputo vincere gli ostacoli oppostimi dalla coscienza, dalle convenienze, dalla paura di vedermi scoperta e vituperata!
Egli invece, quantunque convinto della ragionevolezza e della necessità di quelle cautele, avrebbe voluto gridare dalla finestra ai passanti per la via:
— Sono amato! Sono adorato!
Egli, invece, avrebbe voluto essere invidiato, o vedere almeno che qualcuno tentasse di insidiargli il possesso di quel cuore che palpitava, e la prima volta, soltanto per lui, povero e ignorato maestrucolo! Avrebbe voluto far sapere a tutti che, ora, scaldato da quel fuoco, ora mostrerebbe intera la potenza del suo ingegno musicale.
— Vedranno! Vedranno!
E questo sentimento gli raggiava negli occhi, gli traspariva dall'aria del viso e di tutta la persona, la mattina che il dottor Anguilleri l'aveva incontrato al Pincio e gli aveva lanciato quell' — Ebbene? — graditissimo. Fausto, non sapendo contenersi, s'era sgravato il cuore, velando però molte particolarità, inventandone altre per sviare il dottore, per ingannarlo intorno alla persona, pur augurandosi che colui indovinasse, perchè il trionfo fosse completo.
Il dottore non aveva indovinato, s'era lasciato facilmente sviare. Nominate due o tre signore, col suo solito sorriso sarcastico, col suo risolino a scatti, s'era subito rassegnato a un'ignoranza che gli pareva conveniente a un gentiluomo.
— Bravo! E lavorerai ora?
— Se lavorerò! Mi sento già diventato un altr'uomo. Da quell'amabile scettico che era, il dottor Anguilleri si restrinse a scrollare la testa:
— Vedremo!
E da allora in poi, ogni volta che tornava a incontrarlo, gli domandava:
— Lavori? Questa famosissima Venere infernale sarà condotta presto a fine? Temo che non t'accada come al protagonista nel tuo libretto. Venere ha ricevuto al dito la tua fede, e le vostre nozze saranno tristi; la leggenda è divinatrice.
Fausto non affermava, nè negava; si limitava a rispondergli con un cenno della mano:
— Aspetta ancora un po'!
A Paolina, il cui amore era un misto di passione e di affetto materno, e che lo stimolava anche lei, e spesso avrebbe voluto vederlo lavorare sotto i propri occhi, quasi per assicurarsi il merito dell'ispirazione, Fausto rispondeva diversamente:
— Tu mi assorbi!... Sono così felice di sentirmi tuo, che non posso per ora occuparmi d'altro. Voglio esser tuo, tutto tuo. Che m'importa dell'arte? La mia consolazione, il mio rifugio sei tu soltanto... Verrà il momento dell'arte, ma più tardi. Lasciami intanto ritemprare in te; ho bisogno di riprendere tutte le mie forze.
Ella non osava d'insistere. Non era lietissima anche lei che egli fosse tutto suo, quantunque non credesse che l'arte potesse defraudarla? Come tutte le donne che amano tardi, che commettono nella vita un unico grande errore quasi per rifarsi di non averne commessi prima parecchi minori, la signora Ghedini si lasciava facilmente acchetare dalle belle parole.
Morbosa esaltazione romantica, accoppiata a tardivo risveglio di sensualità, sfogo improvviso di sentimenti che l'educazione e le circostanze avevano compressi o lasciati inerti in fondo a un cuore buono e gentile, la passione della signora Ghedini era diretta conseguenza della mancata maternità, delle mancate intime consolazioni e ch'ella non poteva più attendersi dal marito immerso in grandi speculazioni edilizie, in complicatissime imprese di costruzioni ferroviarie. E aveva avuto origine, come suole spesso accadere, dalla pietà ispiratale dalla triste sorte di Fausto, dal contegno dimesso e rassegnato di quel giovane altiero che non voleva umiliarsi davanti a nessuno, che soffriva in silenzio, vivendo da quasi due anni in quelle due stanzette dove raramente s'udiva il suono del pianoforte, e si sdebitava dell'ospitalità col mezzo dell'arte sua nelle serate di ricevimento. L'avea visto deperire di giorno in giorno e intristirsi; ma ella non aveva saputo mai decidersi a fargli qualcuna delle tante proposte escogitate per aiutarlo senza offendere il suo legittimo orgoglio d'uomo e di artista.
Quella sera, la subitanea apprensione di vederlo cascare nelle reti della Merlacchi le aveva prodotto uno scatto nel cuore; scatto di pazzia, quasi si fossero improvvisamente spezzati i lacci che l'avevano infrenata fino allora e le fosse dilagato per le vene qualcosa di avvampante, di prepotente. E il giorno dopo, si gettava con le braccia al collo di Fausto, singhiozzando: — Fausto, Fausto, come t'amo! Amami, Fausto! — dichiarazione, grido di soccorso e preghiera disperata in uno; ineffabile cosa più per lei che per l'amato. Il quale, preso così alla imprevista, potè per qualche tempo illudersi di corrispondere a tanto affetto con affetto quasi uguale.
Che paradiso quei primi mesi per la signora Ghedini! E che delizia anche per Fausto, a cui la vanità soddisfatta impediva di notare le dissonanze evidentissime dei loro caratteri, come gli aveva impedito di sentir rimorso del vigliacco tradimento contro il suo benefattore.
— Non potrà neppur sospettare!
E questo bastava per mettergli l'animo in pace.
Niente pareva cambiato nel contegno della signora e di Fausto; anzi ora accadeva che Fausto mancasse qualche volta ai soliti ricevimenti di casa Ghedini, che erano un pretesto per ingraziarsi e tenersi amici uomini capaci di giovare, con le loro alte influenze, agli affari dell'ingegnere.
— E Fausto? — aveva egli domandato una volta alla moglie, meravigliandosi di non vederlo.
— Che ne so io? Compatiamolo; deve annoiarsi con questa gente di affari.
— Bisogna avvertirlo di non mancare. Un po' di musica qui è necessaria. E poi, ho in vista qualcosa per lui. C'è l'impresario dell'Argentina....
Ma si era interrotto per correre incontro a un senatore che entrava in quel punto; e dell'impresario non avea più riparlato, nè quella sera nè poi.
Di nuovo, infatti, c'era soltanto l'apertura segreta dell'uscio della stanza da letto di Fausto, che dava nella stanza da toeletta della signora.
La cameriera avrebbe potuto notare che da qualche tempo in qua, la sua padrona impiegava nelle cure della persona e dell'abbigliamento maggior tempo d'una volta; ma la padrona combinava le cose in modo che la cameriera avesse altre occupazioni quando ella andava a chiudersi nella stanza da toeletta: o che, appunto mentre stava ad aiutarla, Fausto suonasse all'uscio di entrata per far avvertire la signora ch'egli andava fuori, se mai dovesse incaricarlo di qualche commissione. Fatta l'imbasciata, la cameriera riceveva parecchi ordini da trasmettere e da eseguire; e così la signora, rimasta libera, metteva il paletto ed entrava in camera di Fausto, che con quella finta uscita aveva già tolto ogni pretesto di sospetto alla cameriera.
In quei primi mesi, trascurando più volte le poche lezioni da fare, egli rimaneva zitto zitto chiuso in casa, attendendo le brevi ma reiterate visite di colei che ormai pareva non potesse più vivere senza di lui. E lui le si concedeva, lui si lasciava prendere; lui era il ricevuto, l'accarezzato, il baciato; quasi il maggior merito fosse suo, e colei dovesse essergli grata perchè le permetteva di amarlo, ora specialmente ch'egli valutava quel che doveva valere per una donna di quarant'anni un giovane di trent'anni con la splendida aureola di artista.
La certezza d'essere amato e l'illusione di amare prodottagli anche dall'eccitazione dei sensi, lo aveano lusingato d'un prossimo risveglio delle sue facoltà musicali. Ripreso in mano il libretto della Venere infernale, di cui era molto contento dopo averlo fatto rimaneggiare più volte dal poeta, e rilettine i due primi atti quasi musicati di tutto punto, Fausto aveva tentato di continuare a comporre.
— Ah, tu non puoi immaginare che piacere mi fai! — esclamò la signora Ghedini la prima volta che lo sorprese al lavoro.
Egli rimase seduto al pianoforte, e sotto la delicata sensazione di quelle mani innamorate che gli accarezzavano la testa, un lieve sorriso gli spuntava su le labbra.
— Stento, stento molto! — poi disse, incupendosi a un tratto.
— Non accorartene!
Pareva ch'egli non s'accorgesse più della presenza di lei, così fissamente guardava la partitura aperta sul leggìo.
— Questo è l'inno nuziale, di stile greco antico, senz'armonia, — esclamò dopo lungo intervallo, sospirando.
Ne accennò con la voce una strofa, ma voltò subito parecchie pagine, infastidito, sdegnato. Quella melodia gli richiamava alla memoria i più bei giorni del suo fervore artistico, e il confronto con la presente impotenza gli riusciva tormentoso.
— No, no, lasciami: sono indegno di te!
Si era levato da sedere, allontanando bruscamente le mani dell'amante, con un sentimento di rancore contro di colei che gli ridestava nel cuore aspirazioni assopite, anzi, morte, e gli faceva riconoscere uno stato di cui egli avrebbe potuto dubitare fino allora.
— Dovresti darti tutto a questo lavoro, non pensare ad altro, e rinunziare anche alle lezioni, se fosse necessario... Te l'ho detto tante volte! — soggiunse umilmente la signora Paolina.
— Non posso!
Rispondeva sempre così, seccamente, sgarbatamente; e la innamorata donna, che non aveva mai insistito altre volte, non insistè neppur ora.
E gli cinse le braccia al collo col suo abituale gesto di abbandono e di conforto, per fargli intendere che almeno avrebbe voluto esser lei la sua unica consolatrice! Non gli bastava?
No, non gli bastava. Fausto si rimproverava spesso la propria aridità di cuore. Ma niente ormai valeva a scuoterlo, a vivificarlo, neppur quell'abbandono, quell'effusione inesauribile, quel continuo e sempre nuovo prodigarsi d'un cuore innamorato e ogni giorno più disposto a sacrificargli tutto, se Fausto avesse potuto avere la forza di chiederle sacrifici maggiori che non quelli del suo affetto e del suo corpo. Ma da qualche tempo in qua, al rimprovero seguiva subito una sdegnosa alzata di spalla. Erano ormai lontani il tumulto del cuore e la gioia della memorabile nottata, quando egli aveva creduto repentinamente vinta ogni tristezza della sua vita, quando gli era parso vedersi spalancare dinanzi l'avvenire luminoso di gloria, riboccante di benessere materiale!
Otto mesi erano appena trascorsi, ed egli già cominciava ad accorgersi di trascinare la catena che colei gli aveva avvinta al piede e sentirne il fastidio.
— Che hai? — ella insisteva.
— Niente.
— Qualche cosa ti preoccupa, lo vedo bene: non negarlo.
— Niente.
Ella taceva per non irritarlo, sapendo per prova che nessuna insistenza sarebbe valsa a altro strappargli di bocca che quella recisa parola — Niente! — Triste parola, che la lasciava dubbiosa, agitata da terrore indefinito, con gli occhi gonfi di lagrime, trattenute per non far peggio.
Il dottor Anguilleri, sdraiato in una carrozzella da nolo, montava lentamente la ripida salita delle Quattro Fontane, quando scorse Fausto sul marciapiede, con le braccia dietro la schiena, il capo basso, il viso rannuvolato. Gli accennò con una mano e fece fermare il legno.
— Accompagnami; tu non hai mai niente da fare. Come sei brutto oggi! Non ti consiglio di presentarti così alla tua amante; le faresti paura.
Fausto, sedendogli a lato, rispose soltanto:
— Dammi una sigaretta.
Nel porgergliela, il dottore lo guardava in faccia con sorrisino beffardo:
— Se gli amori vanno male, figuriamoci la musica!
— Chi te lo dice?
— Posso ingannarmi, forse, intorno agli amori; ma riguardo alla musica, no. Da vero amico, dovrei scapaccionarti peggio d'un ragazzo.
— Oh, non seccarmi con le tue prediche!
— Se lavorerò! Mi sento già diventato proprio un altr'uomo! — riprese il dottore, contraffacendone la voce e il gesto. — Sei imperdonabile!
— Sono un disgraziato!
— Senza energia, senza volontà!
— Tu discorri bene! Vivi tranquillo; hai un posto, sarai professore e andrai anche più in su: nè conto che tuo padre ti ha dato in mano una professione con cui, fin ammazzando la gente, puoi guadagnare quattrini a palate.
— Questo non ti scusa.
— Non voglio scusarmi, ma spiegarti...
— Col tuo ingegno, a quest'ora!... Se tu non avessi coscienza del tuo valore, non ti direi niente; tu però sai quel che vali, quel che puoi. Sei fiacco, sei poltrone; non mi stancherò di rinfacciartelo.
— Sono un disgraziato! Come non lo intendi? Che vuoi tu che faccia? Mi manca il terreno sotto i piedi. Non ne parliamo più, è finita per me; sono incretinito. Ieri c'è corso poco che non stracciassi l'abbozzo dei primi due atti della Venere infernale. Chi ha scritto quella musica non esiste più! Non ho potuto aggiungervi una sola nota... da mesi. E rileggendo al pianoforte il risveglio di Venere, quando la statua della dea sente il fremito della vita animare il suo bel corpo di marmo — a te posso dirlo, non puoi credermi un vanitoso — ho pianto!... È finita! È finita! Perchè non mi butti nel Tevere, non lo capisco io medesimo...
— E l'amore che pareva dovesse fare il miracolo?...
— È diventato un gran guaio; non ne posso più. Mi ero lusingato....
— Manda al diavolo quella donna.
— Non è facile; e questo è il peggio!
— Perchè?
— Perchè... Non ne parliamo.
Erano arrivati in Piazza Vittorio Emanuele davanti all'Istituto di Sanità, dove il dottor Anguilleri lavorava nella sezione battereologica.
— Vieni su, ti distrarrai, — gli disse.
— Tra i microbi? No; mi fanno schifo.
— Manda al diavolo costei, e mettiti a lavorare! — ripetè il dottore che gli voleva molto bene e ne ammirava assai l'ingegno.
Fausto gli strinse la mano e tornò addietro a piedi, riflettendo accoratamente che l'Anguilleri non aveva torto. In che modo poteva egli romperla? Abbandonando quelle stanze, aggravando così la sua trista situazione? S'era lasciato irretire e non sapeva come distrigarsi. Gli mancava il coraggio di dire a quella povera donna: — Non t'amo più! —
— L'avea mai amata? Ella già dubitava; eppure gli si aggrappava addosso, come una naufraga, pazza di amore addirittura, decisa a commettere qualunque enormità! Non c'era verso di liberarsi di lei senza produrre uno scandalo. E intanto, maligna sorte! egli intravedeva che, forse, senza quest'impiccio, senza questo legame... Ah, che vita! Che tortura!
Trasalì, vedendo quasi accoccolata sul canapè la signora Ghedini che lo attendeva. Pallida, con gli occhi rossi dal pianto, lo guardava fisso fisso, quasi per leggergli nell'aspetto il segreto che la desolava.
— Donde vieni? — domandò con accento represso, continuando a fissarlo.
E visto ch'egli non rispondeva, riprese:
— Lo so; vieni dalle Merlacchi: dài lezione a sua figlia, e non me n'hai detto niente. Perchè non me n'hai detto niente?
— Ti ho mai parlato delle mie lezioni?
Al tono secco della risposta, la signora Ghedini si levò da sedere e gli andò incontro, strizzandosi le mani dall'angoscia.
— Eppure tu sapevi che questa lezione non avresti dovuta accettarla!
— Per quale ragione?...
— Perchè sapevi che avrebbe fatto gran dispiacere a me.