Luigi Capuana

Delitto ideale

Pubblicato da Good Press, 2021
goodpress@okpublishing.info
EAN 4064066072018

Indice


A EDOARDO ROD
DELITTO IDEALE
SUGGESTIONE
IN BARCA
FORZE OCCULTE
UN CONSULTO
SEMPRE TARDI!
DOLORE SENZA NOME
L'INGENUITÀ DI DON ROCCO
=OH, QUEL SILENZIO!=
UN'ARIA DI CIMAROSA
NON PREDESTINATO?
CHI SA?
LA EVOCATRICE
L'INESPLICABILE

A EDOARDO ROD

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Carissimo Amico,

Terminando di leggere la semplice storia dell'umile famiglia e dell'umile lite che vi ha fatto scrivere nell'Eau courante pagine così schiette e così evidenti da far dimenticare che si tratti di finzione d'arte—e questo mi sembra il più bel elogio a cui un romanziere possa aspirare—io pensavo:

L'amico Rod, come tanti altri, ha abbandonato la novella e da un pezzo!

E il caso vostro mi ha spinto a riflettere che non si tratta di un fenomeno personale quasi eccezionale, ma di tendenza, spiccata, del lavoro letterario di questi ultimi anni.

Il romanzo già uccide la novella?

A un novelliere impenitente come me il fatto dà molto da pensare. Anche nella ricca produzione francese i volumi di novelle cominciano a divenire di mano in mano più rari. Siamo lontani dal tempo in cui Guy de Maupassant conquistava la celebrità con parecchie serie di narrazioni, la più lunga delle quali non sorpassava le cinquanta pagine, e che ottenevano l'onore di frequenti ristampe.

A chi attribuire la colpa del quasi abbandono di un genere letterario fiorito riccamente per tanti secoli e in grande onore fino a pochi anni fà?

Nell'ansiosa fretta di vivere e di di godere che ci urge, avrebbe dovuto accadere altrimenti. Con narrazioni brevi, spigliate, sorridenti d'ironia e di umore, o piene di sentimento e di tragico raccapriccio, dove le figure tracciate alla lesta, di scorcio, dove le passioni condensate, rettificate come l'alcool, sembravano di corrisponder meglio alla febbrile richiesta di impressioni e di sensazioni rapidamente diverse, la novella avrebbe dovuto guadagnare terreno invece di perderne.

È avvenuto l'opposto, e quando più essa mostrava la sua grande facilità di adattarsi a ogni genere di soggetti, di poter quasi fare a meno dei soliti casi passionali e di spingersi verso regioni elevate, senza diminuire per questo la genialità della sua forma.

Peccato!

Per quali ragioni il romanzo ha preso in questi ultimi anni il sopravvento su la novella?

Ragioni puramente letterarie non ho saputo scoprirne. Veggo, però, che molti romanzi odierni, come contenuto, sono novelle più o meno abilmente diluite in trecento e più pagine, a furia di descrizioni e di pretesa analisi psicologica. Gli stessi fatti richiederebbero in una novella (Voi lo sapete meglio di me) sforzi d'ingegnosità tecnica infinitamente maggiori. La novella è il sonetto dell'arte narrativa.

E Voi non mi accuserete di esagerazione se affermerò che è più facile lo scrivere un mediocre romanzo anche di cinquecento pagine, che non un'eccellente novella di dieci paginette soltanto. È vero che le eccellenti novelle sono rare quanto gli eccellenti romanzi: ma io non ho ritegno di aggiungere che una mediocre novella vale qualche cosa di più di un mediocre romanzo, non fosse per altro, per la brevità; non ha tempo di annoiare i lettori.

Tutto questo, detto in testa a un volume di novelle, potrebbe sembrare un'orazione pro-domo sua. Voi non lo sospetterete, e voglio augurarmi che non lo sospetterà nessuno dei miei pochi lettori.

Certamente io desiderei che qualcuno si accorgesse dell'intenzione con che è stato messo insieme questo volume per mostrare i diversi atteggiamenti di cui è capace la novella odierna, se mai, per caso, qualcuno stimasse che metta conto perdere il suo tempo in simili osservazioni. E desiderei che se ne accorgesse non per interesse del mio volume—ormai l'età e l'esperienza mi han guarito da certe fisime—ma per ragioni più importanti e più generali quelle, intendo, che riguardano l'esistenza stessa della novella.

Ma forse queste ingenue malinconie faranno sorridere di compassione lettori e critici. Sono morte tante belle e nobili cose: possiamo lasciar morire tranquillamente e oscuramente la Novella!

E scusate, caro Rod, se per avere un pretesto di dirvi che vi ammiro e che vi voglio bene, Vi ho chiamato a parte di un inutile sfogo.

Roma, 5 aprile, 1902.

LUIGI CAPUANA.

DELITTO IDEALE

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A FEDERICO DE ROBERTO.

—E la giustizia?—esclamò Lastrucci.

—Quale?—replicò Morani.—Di quella del mondo di là, nessuno sa niente; la nostra, l'umana, è cosa talmente rozza, superficiale, barbarica, da non meritar punto di essere chiamata giustizia. Condanna o assolve alla cieca, per fatti esteriori, su testimonianze che affermano soltanto l'azione materiale, quel che meno importa in un delitto. Il vero delitto, lo spirituale, resultato del pensiero e della coscienza, le sfugge quasi sempre; e così essa spessissimo condanna quando dovrebbe assolvere e assolve, pur troppo! quando dovrebbe condannare.

—Ecco i tuoi soliti paradossi! La giustizia umana fa quel che può.
Vorresti dunque punire fin le intenzioni nascoste?

—Certamente. Un omicidio pensato, maturato con lunga riflessione in tutti i suoi minimi particolari e poi non eseguito perchè l'energia dell'individuo si è già esaurita nell'idearlo e prepararlo, è forse delitto meno grave d'un omicidio realmente compiuto?

—Tu foggi un caso strano, eccezionale.

—Più comune di quanto immagini. Ed io ho conosciuto un uomo, degno veramente di questo nome, il quale si è giudicato da sè per un delitto di tal genere, e si è punito come se avesse proprio commesso l'omicidio soltanto fantasticato e progettato.

—Era pazzo costui.

—Era un gran savio, dovresti dire. La sua coscienza non gli dava pace. E siccome egli non poteva presentarsi a un giudice e accusarsi—il giudice avrebbe ragionato come te e lo avrebbe fatto chiudere in un manicomio—così per attutire i rimorsi, si è giudicato e si è condannato da sè ad espiare la stessa pena che il magistrato gli avrebbe inflitta, se avesse potuto giudicarlo secondo la legge ordinaria.

—Come ha fatto? E perchè avea voluto ammazzare?

—Per gelosia.

—Si sarà accordato almeno le attenuanti!—disse Lastrucci sorridendo.

—Nessuna attenuante—riprese Morani.—Oh! Non era uomo volgare. La profonda cultura e la esperienza della vita avrebbero dovuto metterlo in guardia contro i subdoli suggerimenti di quella bassa passione; infatti, riconosciutosi illuso dalle apparenze, egli pensava che sarebbe stato suo dovere sottrarsi al loro inganno. Invece, non aveva fatto nessuno sforzo; si era lasciato travolgere senza resistenza; e ciò rendeva imperdonabile agli occhi suoi l'intenzionale delitto.

—Non capisco. Siamo forse padroni di noi stessi in certe circostanze?

—Il mio amico giudicava che dobbiamo esser sempre padroni di noi stessi, se vogliamo dirci creature ragionevoli.

—Dal dovere all'essere ci corre un bel tratto. Costui, stimandosi creatura ragionevole, ragionava assai male.

—No. Tullio Dani ha fatto una nobilissima azione. La sua sublime eccezionalità consiste appunto in essa. Ascolta. Aveva preso moglie un po' tardi, a quarantacinque anni; e la sua signora, bellissima, ne aveva appena vent'otto. Bell'uomo anche lui, serio, indipendente, avea potuto sodisfare ogni suo desiderio, coltivando lo studio prediletto delle cose letterarie e filosofiche, intraprendendo lunghi viaggi in Europa e in America per aumentare la sua cultura, che l'eccessiva modestia gli ha impedito di mostrare agli altri con lavori d'arte o di riflessione. Non ha mai pubblicato neppure un articolo, e avrebbe potuto scrivere libri assai meglio di parecchi. Aveva anche, come suol dirsi, goduto la vita. La sua virile bellezza gli avea procacciato facilmente molte buone fortune presso le donne. E fino ai quarantaquattro anni gli era riuscito di conservare intatta la sua libertà di cuore, forse per un sentimento di egoismo prodotto dalla passione dello studio, forse perchè fino allora non gli era avvenuto d'incontrare la donna ideale da lui vagheggiata. La solitudine della sua vita—era rimasto orfano giovanissimo e non aveva stretti parenti—non gli era parsa mai grave. Pagava unicamente con la carità il suo debito di uomo sociale; e non attendeva che la gente si rivolgesse a lui. Andava incontro a coloro che soffrivano, e tra questi sapeva indovinare coloro che soffrivano più chiusamente in miseria schiva e rassegnata.

Dopo i quarantaquattro anni, egli cominciò ad accorgersi che il celibato stava per divenirgli increscioso. Sentiva di aver sodisfatto a bastanza le esigenze dell'intelletto, e di aver trascurato troppo quelle del sentimento.

Annunziandomi il suo prossimo matrimonio, mi avea domandato:

—Ti sembra che ci sia molta sproporzione tra la mia età e quella della futura mia moglie?

—No davvero—risposi.

Questa idea che lo aveva tenuto esitante parecchi mesi, dovette riaffacciarglisi, sei mesi dopo, alla mente quando egli sentì i primi sintomi della gelosia che parve invecchiarlo di dieci anni in pochissimo tempo. Credendolo colpito da male occulto che gli insidiasse la vita, lo sollecitavo caldamente di consultare un medico e di curarsi.

—Sto benissimo—rispondeva.

—La tua signora è impensierita—gli dissi una volta.

—Per così poco?—soggiunse con accento d'ironia e di tristezza.

Non osai d'insistere oltre, sospettando intime ragioni inesplicabili per me. La giovane sposa mi sembrava in continua adorazione davanti a lui. Bionda, piccola, gracile, sufficientemente colta da potere apprezzarne l'elevatissima intelligenza e la immensa bontà d'animo, io la stimavo vinta dal doppio fascino della virilità di quel bruno, alto e forte, e della luminosità dello spirito che gli raggiava negli occhi nerissimi e nell'ampia fronte. Sapevo che lo aveva amato lei prima di essere amata, e che questa circostanza avea molto contribuito ad affrettare la risoluzione e la decisione di lui.

Un anno dopo, la febbre tifoidea troncava quasi improvvisamente quella giovane vita. Il dolore di Tullio per tale perdita fu così straordinario, che io, ripensando molti particolari da me notati e parecchie sue strane risposte, fui indotto a sospettarlo esagerato ad arte per scancellare le impressioni che essi avean dovuto lasciarmi nell'animo.

Ero suo amico d'infanzia. Da che gli era passata la smania dei viaggi, ci vedevamo quasi tutti i giorni; e soltanto così avevo potuto intravvedere il terribile dramma che si era rapidamente svolto nella vita intima di lui. Conoscendo però la sua indole taciturna per quel che riguardava certi fatti personali, non mi attendevo più di poter essere un giorno o l'altro l'unico confidente di quel segreto che avea sconvolto all'ultimo la sua felice esistenza.

Una mattina lo vidi apparire in casa mia con un grosso plico di carte in mano.

—Ho bisogno dell'opera tua. Vengo a chiederti il grave sacrificio di essere per parecchi anni l'amministratore dei miei beni.

—Intraprendi un lungo viaggio?—domandai.

—No.

E, dopo breve pausa, soggiunse:

—Non ti faccio una confidenza; quel che ora ti dirò potrai ridirlo, se ti sembra opportuno. Vorrei anzi, come i primi cristiani, confessarmi in pubblico, ma temo di veder male interpretata la mia azione, di apparire ridicolo. Tu saprai intendermi e compatirmi.

Lo guardai ansioso, e con un breve gesto di assentimento lo invitai a proseguire.

—Sono stato un miserabile vigliacco!—egli disse energicamente.—Ho commesso l'infamia di contristare, calunniandola con indegni sospetti, la più buona, la più santa creatura che io abbia conosciuta in questo mondo. La morte è stata giusta privandomi di così gran tesoro; non ero più degno di possederlo. Ho fatto anche peggio; sono stato assassino… con l'intenzione soltanto; ma questa circostanza non significa niente. Ho goduto intera la malvagia sodisfazione che quel delitto mi avrebbe dato nel caso che avessi avuto la forza di compirlo, e ne sento vivissimo rimorso, quasi lo avessi davvero compiuto. La giustizia umana non può colpirmi; io però non mi reputo meno assassino per ciò. Mi son giudicato da me, inesorabilmente, e mi son condannato alla pena che avrei meritata se la mano avesse già posto in atto quel che il pensiero si è lungamente compiaciuto di architettare con la più raffinata malizia.

—Oh, Tullio!—esclamai.

—Ti meravigli di scoprir cascato tanto in basso colui che ha vagheggiato in tutta la sua vita i più eccelsi ideali d'arte e di pensiero? La miseria dello spirito umano è così grande, che dovresti piuttosto maravigliarti di non vedermi cascato ancora più in basso! Sappi però che, se non sono stato effettivamente assassino, la mia volontà non c'entra per nulla.

Si fermò un istante, scosse la testa, strizzando un po' gli occhi, poi riprese:

—Non riesco a spiegarmi neppur io come abbia cominciato a sospettare. Avrei dovuto reagire sùbito contro le prime impressioni prodotte da indizi riconosciuti fallaci. L'amor proprio, l'orgoglio lievemente feriti mi spinsero invece a dubitare di quel riconoscimento, a rimuginare quegli indizi, a ricercarne con intensa dolorosa voluttà altri nuovi. Forse li creò la mia fantasia, o forse un crudele destino mi ordì perfidi inganni con cento piccoli fatti facili ad apparire molto diversi da quel che essi erano in realtà…. Mia moglie, innocente, e senza nessun sospetto, non poteva evitare certe circostanze che congiuravano fatalmente a dar corpo alle ombre e mettermi l'inferno nel cuore. Avrei dovuto chiederle spiegazioni, avvertirla, ammonirla; non volli, sperando di sorprenderla in qualche atto da non permetterle sotterfugio alcuno per continuare ad ingannarmi. E più le mie ricerche, i miei agguati non ottenevano nessun convincente risultato, più io m'ostinavo a immaginare che la sua diabolica malizia riuscisse a farmi sfuggir di mano l'atroce vendetta il cui proponimento mi aveva già invasato l'animo. Non posso diffondermi in minuti particolari; il ricordo mi è insopportabile ora che sono convinto del mio inganno. Importa soltanto che tu sappia la vendetta meditata giorno e notte contro il creduto suo complice.

In quanto a lei, inattesamente, mi ero sentito a poco a poco sopraffare da compassionevole tenerezza; le perdonavo in grazia dell'amore che aveva avuto per me quando ancora ignoravo di essere amato da lei; le perdonavo per la sua bellezza, per la sua giovinezza, per l'inesperienza della vita, che avea dovuto agevolarne la trista caduta. Tutto il mio odio si concentrava su colui, sul creduto seduttore che non poteva avere scusa di sorta alcuna, che doveva aver operato il male sapendo di far male, e con lo squisito piacere di farlo a danno del mio onore, della mia felicità, anzi principalmente per questo. Volevo toglierlo dal mondo senza che si potesse mai scoprire qual braccio lo avesse colpito. E la lunga ricerca del mezzo arrivava talvolta fino a calmare i miei strazi. Avevo scelto l'arma: il rasoio. Da un mese mi mostravo in fidente relazione con lui. È inutile dirti il suo nome; è già molto l'averlo stimato capace di un'infamia; non voglio offenderlo ancora col far sapere ad altri che ho potuto crederlo tale. Il peggior tormento prodotto dalla gelosia è quel non sentirsi mai sicuri, quel vivere di dubbi e di sospetti che si vorrebbero veder distrutti, e che si teme di veder distrutti perchè un giorno essi potrebbero servire a farci raggiungere la paventata e pur desiderata certezza. Per ciò io attendendo il terribile momento in cui non avrei potuto dubitar più, maturavo il mio disegno, lo studiavo nei minimi particolari dell'atto vibrante, e arrivavo al punto di sentire nella concezione del delitto la stessa selvaggia voluttà che mi avrebbe dato l'attuazione di esso quando l'istante della certezza sarebbe scoccato. Per le vie, nel mio studio, a letto accanto a lei fingendo di dormire profondamente, io assalivo l'odiato, gli sprofondavo nel collo l'affilata lama del rasoio che doveva recidergli la carotide con tale rapidità da non fargli quasi accorgere di morire; e sentivo su la mano convulsa il caldo schizzo del sangue, e udivo il rantolo della gola squarciata, e vedevo l'annaspare di quel corpo che stramazzava con sordo rumore sul selciato. Ho assaporato, per due lunghi mesi, dieci, venti volte al giorno, questa feroce gioia assassina; ho assistito dieci, venti volte al giorno, al tetro immaginario spettacolo di quella morte; e tale crescente evidenza esso aveva raggiunto all'ultimo, che io mi riscotevo dall'impressione con lo stesso brivido di orrore e di brutale sodisfazione che mi sarebbe stato prodotto dalla realtà. Potrei dire di avere commesso non uno ma cento assassinî, giacchè ognuna di quelle ossessionanti rappresentazioni era una variante sempre più perfezionata, sempre più efficace della precedente; e così, alla fine, fui talmente pago di quelle fantasticate sensazioni, da sentir venir meno il bisogno di attuare la mia vendetta; lo sforzo del pensiero avea esaurito ogni mia fisica energia. Mi ero così internamente compiaciuto di ammazzare pensando, da non provar più nessun bisogno di altra sodisfazione materiale…. La realtà avrebbe, forse, potuto darmi sodisfazione più sincera e più acuta? Per questo, per questo soltanto, io non sono stato omicida nel volgare senso di questa parola! Appunto allora il caso mi faceva scoprire qual viluppo di incredibili circostanze era concorso a illudermi, a trarmi in inganno. Oh!… È orribile! A che cosa mi era servito dunque l'aver tanto studiato, osservato, meditato? Ho chiesto perdono a mia moglie inginocchiato davanti la sponda del suo letto di morte. La intelligenza offuscata dal male le ha impedito di comprendere. Nei vaneggiamenti del delirio, ella ripeteva continuamente:—Tullio, che cosa hai contro di me?… Che ti ho fatto? Perchè non mi ami più?—Ed è morta con questo affettuoso rimpianto su le labbra.

—Ebbene?—dissi io, vedendolo caduto in grave abbattimento.—Tutto ciò è naturale, è umano.

—Non può essere umano il delitto se rimane impunito!—egli esclamò, rilevando alteramente la testa.—Chi desidera la donna altrui, commette adulterio. Chi pensa di ammazzare, commette omicidio. Ed io mi sento omicida.

—Tullio! Tullio!—lo rimproverai.

—Non ho smarrito il senno!—egli riprese.—Per la pace del mio spirito, per la giustizia ideale ho voluto far questo: giudicarmi e condannarmi con la stessa imparzialità e serenità con che avrei giudicato qualunque persona accusata del mio stesso delitto. Domani l'altro partirò pel luogo da me scelto ad espiarvi la pena. La mia prigionia non differirà in niente da quella legale. Sarà dura, inesorabile, ed io diverrò tra pochi giorni il carceriere di me stesso….

—Era pazzo il tuo Tullio Dani!—ripetè Lastrucci stato fin allora ad ascoltare intentissimo.—Ed ha finito di espiare?

—Non ancora!—rispose Morani.

SUGGESTIONE

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A L. ANTONIO VILLARI.

Alla risposta di Efisio Chiardi, Bedini fece una mossa d'incredulità.

—E non solamente—soggiunse Chiardi—non sono innamorato di quella signorina, ma non la posso soffrire! Mi è antipatica…. Non la posso soffrire!

—Ora eccedi!—disse quegli.—Capisco, fino a un certo punto, la tua riserbatezza. Ma da questo al volermi dare a intendere che ti è antipatica, che non la puoi soffrire… scusa….

—Riserbatezza?… Con te, caro Bedini? Eh, via!

—E se ti rivelassi da quale fonte ho potuto attingere la notizia?

—Ti convincerei con due parole che è fonte inquinata.

—Ebbene… L'ho saputo dalla mamma!

—Tua?

—No, di lei.

—Dalla signora Carlotta?… Casco dalle nuvole!