Luigi Capuana

Rassegnazione

Romanzo
Pubblicato da Good Press, 2021
goodpress@okpublishing.info
EAN 4064066072353

Indice


I.
II.
III.
IV.
V.
VI.
VII.
VIII.
IX.
X.
XI.
XII.
XIII.
XIV.
XV.
XVI.
XVII.
XVIII.
XIX.
XX.
XXI.
XXII.
XXIII.
XXIV.
XXV.
XXVI.
XXVII.

I.

Indice

Ogni volta che ricordo mio padre, lo rivedo come in quel giorno, presso la finestra del suo largo studio, alto, aitante della persona, coi folti capelli brizzolati che gli mettevano una specie di aureola attorno alla fronte, con la barba fluente su l'ampio torace; e mi par di sentirne risonare la parola a scatti, accompagnata da vivacissimi gesti che rivelavano tutta la foga della sua anima forte ed equilibrata.

Era tornato da un viaggio in Francia e in Inghilterra per affari.

—Ora pensiamo a te!—mi aveva detto.

Avevo compiuto i miei studi liceali ed ero rimasto quattro anni incerto, esitante intorno alla professione da scegliere. Egli mi aveva lasciato libero di studiare a modo mio per scoprire in me l'indizio di qualche vocazione più spiccata; e non avevo scoperto niente. Vivevo appartato dalla società, divorando da mattina a sera libri di ogni genere, prendendo appunti, disegnando nelle ore in cui mi sentivo affaticato dalla lettura, ricevendo qualche visita di pochi amici studiosi al pari di me, ma che tramezzavano gli studi coi divertimenti, con gli esercizi corporali, e che io ammiravo grandemente perchè non potevo imitarli.

Ero timido, ombroso per la coscienza, della mia debole costituzione fisica che i medici avevano tentato invano di fortificare con ricostituenti di ogni sorta. L'aria della campagna—mia madre aveva passato due anni, con me in una villa comprata a posta dal babbo—mi era giovata pochino.

—Il ragazzo è sano,—aveva concluso finalmente il dottore.—Non sarà mai un atleta come il babbo; bisognerebbe rimpastarlo. Cessiamo di rimpinzarlo con troppi intrugli farmaceutici. La natura farà da sè, tra qualche anno.

Ero però rimasto mingherlino, palliduccio, serio più che all'età mia non convenisse. Avevo studiato bene, ma senza entusiasmo; continuavo a studiare. Ed ora, sul punto di varcare il limite della giovinezza ed entrare nella virilità—avevo vent'anni—mi sentivo tuttavia fanciullo di corpo e di spirito.

Riflettendo, certe volte mi sembrava di essere qualcosa di mostruoso, una creatura il cui regolare sviluppo fosso stato impedito da misteriose circostanze e che rimarrebbe tale per tutta la vita.

Per ciò, quel giorno, appena mio padre mi domandò che cosa pensassi di fare pel mio avvenire, io non seppi rispondere altrimenti che con uno scoppio di pianto dirotto.

Egli mi prese affettuosamente per le mani, stupito, domandandomi replicatamente:

—Perchè?

E siccome io non davo nessuna risposta, così, rilasciatemi, con un gesto d'impazienza e di contrarietà, le mani, si mise a passeggiare su e giù per lo studio, borbottando:

—Sei un fanciullo! Proprio un fanciullo!

Poi mi si accostò di nuovo, accigliato. Avevo alzato la testa per guardarlo in viso, per chiedergli scusa di quel pianto che tentavo invano di frenare.

—Il torto è mio,—esclamò.—Ti ho abbandonato troppo a te stesso. Avrei dovuto farti dolce violenza, sospingerti nella vita, iniziarti all'azione, strapparti ai libri…. Me ne accorgo in tempo. Per gli affari—soggiunse dopo breve pausa—non hai fibra resistente; e poi, bisognava cominciar di buon'ora, intendo per gli affari che ho fatto e faccio io….

Si era fermato quasi gli fosse sembrato meglio riserbare per sè quel che stava per dirmi. E, mutando tono di voce, continuò:

—Ho lavorato per te, com'era mio dovere. Tu non mi avevi chiesto di metterti al mondo; era giusto che pensassi io a renderti la vita meno triste e meno difficile che non fosse stata per me. Ci son riuscito. Non ti ho fatto milionario; i milioni, checchè ne dicano, non si trovano a ogni piè sospinto. Sei però ricco a bastanza da poter dire:—Voglio questo, con questi mezzi.—Ma risolviti. La vita è azione; ormai dovresti saperlo. Se i libri e lo studio non te l'hanno fatto capire, vuol dire che non giovano a niente. Quelli che io ho letti mi son serviti sempre a qualche cosa. Non ho mai studiato pel solo gusto di studiare, neppure quando avevo la tua età. Già allora me ne mancava il tempo; dovevo lottare contro la cattiva sorte. Per me, se il pensiero non diventa azione, azione di qualunque natura, è assolutamente cosa vana. Che intendi di fare?

—Non lo so; non ho nessun'idea chiara, intorno alle mie forze, intorno a una vocazione determinata. Non mi capisco…. Forse non sarò mai buono a niente!

Avevo risposto con voce commossa, abbassando la fronte, quasi mi vergognassi di quel che dicevo.

—Rifletti,—riprese mio padre;—ti do un mese di tempo. Prima di morire, voglio sapere che è mai diventato mio figlio; voglio andarmene all'altro mondo con la coscienza tranquilla anche su questo punto. Un figlio è l'opera più importante di cui si deve render conto a sè stessi, alla società, a Dio…. giacchè io credo in Dio, tu lo sai. Dando la vita a una creatura umana, si introduce nel mondo un elemento di forza, che può fare gran bene e gran male. Spasso il padre non è responsabile….

E credendo, a una mia lieve mossa d'impazienza, che intendessi di contraddirlo, si era interrotto, domandandomi:

—Non è vero forse?

Risposi con un gesto affermativo, volendo evitare una discussione.

Mi guardò un istante per convincersi della sincerità della mia risposta e riprese:

—Chi sa mai, procreando, se farà un delinquente o un grande uomo? La responsabilità comincia dopo. Per ciò mi piace di avere la coscienza netta; se occorre, voglio anticipatamente domandar perdono a Dio del male che mio figlio farà per colpa mia; voglio rallegrarmi del bene che opererà, se riesce un galantuomo. Galantuomo tu sarai senza dubbio. Non ti ho dato cattivi esempi. Ho lavorato, lavoro ancora, lavorerò finchè avrò forze. Forse ti paio uomo materiale, perchè uomo di affari; t'inganni. Ho fatto quel che sapevo far meglio, coscienziosamente, non risparmiandomi mai. Lavorando per me, ho giovato molto agli altri, ora senza volerlo, ora di proposito; nella vita accade così, anche pel male. Essere galantuomini però non è tutto; si può esser tali anche negativamente; almeno il mondo giudica così; chiama pure galantuomini, onesti coloro che si limitano a non fare danno agli altri. Io la intendo diversamente. Non fare il male è poco; bisogna, anche fare il bene, secondo le proprie forze, le proprie attitudini, servendosi delle circostanze. In che maniera vorrai tu farlo? È tempo che tu prenda una decisione e una risoluzione. Sei già uomo, capisci!

Non avevo mai sentito parlare mio padre con tanta serietà e tanta elevatezza. La sua voce mi penetrava nel più profondo dell'anima, mi turbava, mi sconvolgeva. Il suo sguardo, fissato nei miei occhi, mi pareva un raggio di luce che illuminasse quella profondità e me ne facesse scorgere tutta la miseria e tutto l'orrore.

Non valse l'ultimo addolcimento di voce con cui egli aveva pronunziato le parole: «Sei già uomo, capisci!»; non valse la carezza della sua mano robusta, passata amorevolmente sui miei capelli nel momento in cui mi alzavo dalla seggiola dove ero rimasto seduto mentre egli parlava, in piedi, davanti a me.

Uscii dal suo studio con un inesplicabile sentimento di rancore, che in quel punto non intendevo se contro di lui o contro le cose da lui dette; e andai a rifugiarmi nella mia camera. Non volevo pensare, non volevo riflettere. Avrei voluto dimenticare; ma era impossibile.

Mentr'egli parlava, la mia attenzione, più che dalle sue parole, era stata attratta dalla sua persona. Mi era parso un gigante, una creatura diversa da me, capace di ammaccare il mondo con un formidabile colpo di pugno; capace di sconquassarlo con una scossa delle braccia nerborute, con una spinta del suo petto di bronzo. Nella fronte ampia e negli occhi vivacissimi lampeggiava indomabile la volontà; e la tenacità dei propositi risaltava evidentissima da quelle labbra ombreggiate dai folti baffi, dall'espressione della testa che richiamava alla memoria quella del Mosè di Michelangelo, quantunque in proporzioni ridotte. Come mai da quel colosso ero potuto scaturire io, fragile creatura vissuta quasi a stento?

E mentr'egli mi diceva: «Tu non mi avevi chiesto di metterti al mondo; era giusto che io pensassi a renderti la vita meno triste e meno difficile che non sia stata per me», una risposta cupa, indefinita, una specie di accusa, mi fremeva dentro:—Perchè non hai saputo farmi forte come te? Dovevi cominciare da questo.—E mentr'egli mi diceva: «La vita è azione, ormai dovresti saperlo!», un'altra risposta non meno cupa non meno indefinita e non meno accusatrice, mi fremeva, non dirò nella mente, ma in tutte le fibre:—E perchè tu intanto mi hai fatto appunto così inetto all'azione?

II.

Indice

La mia timidezza proveniva, in gran parte, dal convincimento della inferiorità fisica a cui mi credevo condannato, e dal sentimento della mia inferiorità intellettuale che giudicavo dovesse risultare da quella.

Non già che io mi stimassi uno sciocco, no; sapevo benissimo quel che valevo; valevo quanto molti altri. Ma che importava? Non valevo però tanto da essere assai più di molti altri. Misuravo la distanza frapposta tra quel che sapevo di essere e quel che avrei voluto e non avrei potuto mai essere, e mi sentivo preso da scoraggiamento che mi rendeva eccessivamente severo con me stesso, fino a farmi giudicare inutile qualunque sforzo, anzi inutile la vita medesima! Avrei voluto essere un braccio, una mano; e potevo appena fare la funzione di un meschino strumento in mano altrui, caso che ci fosse stato chi avesse voluto adoprarmi in qualche umile circostanza. Non sapevo rassegnarmi.

In quei quattro anni, ero passato per una serie di prove tentate una dietro all'altra, non la speranza che, forse, quando meno me l'attendevo e da dove meno l'attendevo, sarebbe venuta fuori la coscienza della mia vita, la ragione del mio avvenire.

Ecco, invece, quel che n'era venuto fuori.

Ma prima debbo dire di un'altra anomalia del mio organismo.—Debole, ero poco sensibile; e avrei dovuto essere l'opposto.

Non mi eccitavo per nulla; non avevo scatti di ribellione o di allegria, come gli altri fanciulli. Ripensando, oggi, le mie sensazioni di allora, rimettendomi con la immaginazione in quello stato, mi sento intorpidito, impacciato, incapace di ricevere intero l'urto delle impressioni esterne, di trasformarlo, di assimilarlo; quasi mi mancasse l'attitudine della resistenza, quasi i miei nervi fossero stati di bambagia.

Era proprio così. Tutto veniva a posarvisi, ad adagiarvisi cautamente, dolcemente, sofficemente. E non posso prolungar molto questo sforzo dell'immaginazione per rivivere la mia fanciullezza e spiegarmela. Soffro ora quel che non soffrivo allora; mi sento mancar l'aria, mi sento imprigionato dentro me stesso; e mi vengono le lagrime agli occhi per quegli anni così smorti, così tristi, per quella, sto per dire, mia anticipata vecchiezza.

Soltanto una volta avevo avuto un lampo di coscienza durante il grigio torpore dei primi anni di scuola. Uno dei miei compagni mi aveva chiamato:—Mummia! Mummiaccia!—Dal tono della voce avevo capito che quella parola, di cui non intendevo il significato, doveva esprimere un'ingiuria; e, tornato a casa, avevo subito domandato alla mamma:

—Mummia, che vuol dire?

La mamma, poverina, me lo aveva spiegato bene; ed io ero rimasto pensieroso tutta la giornata, intento a indovinare quale relazione passasse tra una mummia e me.

—Non sono una persona morta!—pensavo.

Intanto l'idea che uno avesse potuto ingiuriarmi con quel nome, cioè che avesse potuto giudicarmi quasi persona morta, imbalsamata, fasciata—questi particolari avevano fatto maggiore impressione su la mia fantasia—mi die' per parecchi giorni un profondo senso di tristezza.

—Se colui ha potuto dirmi: Mummia!—riflettevo,—significa che ha veduto in me qualcosa che gli ha richiamato la mummia alla memoria.

Barlume di coscienza infantile, sparito presto e non rinnovatosi più.

Non godevo e non soffrivo.

Ricordo le sensazioni della mia vita di campagna, nella deliziosa villa comprata a posta dal babbo. Vi sono tornato spesso, in questi ultimi tempi, e principale occupazione colà è stata sempre quella di ricostruirmi con tutti i particolari la mia vegetazione di allora; non posso chiamarla altrimenti.

Le belle giornate, il verde dei campi, il canto degli uccelli, le acque scorrenti, le stesse affettuose premure della mamma, la compagnia dei bambini del mezzadro, niente penetrava a fondo dentro di me, niente riusciva a produrre un'eco di sentimento nella mia povera animuccia.

Restavamo soli colà, mia madre ed io, per mesi e mesi. Il babbo era costretto a viaggiare spesso dagli affari, dalle speculazioni commerciali, o era trattenuto in città. Scriveva quasi ogni giorno per avere notizie di me e s'impazientiva di non riceverle quali le avrebbe volute. Capivo questo dall'espressione del viso della mamma mentre leggeva la lettera tenendomi tra i ginocchi; lo capivo dalla sua invariabile esclamazione:

—Benedett'uomo!… Quasi fosse colpa mia!

—Che vuole il babbo?—le domandavo.

—Vuole che tu ti diverta, che tu corra, che tu faccia il chiasso con gli altri bambini, per diventar grande e forte come lui.

In quel tempo avevo per mio padre un sentimento di affettuoso terrore; sì, di affettuoso terrore. Mi compiacevo di sapermi voluto bene da lui; ma quand'egli arrivava, improvvisamente alla villa per uno o due giorni, avevo proprio una sensazione di terrore nel sentirmi sballottare tra le sue braccia, strusciar dalla sua barba allorchè mi baciava, trascinar per mano lungo i viali, pei sentieri delle colline, forzandomi a correre mentre egli camminava regolarmente coi larghi passi da gigante; nel vedermi tutt'a un tratto sollevato di peso, con un braccio, perchè potessi staccare un ramo, o cogliere un frutto da un albero che mi pareva toccasse il cielo, guardato da terra.

A tavola mi stupivo egualmente di mio padre, sgranando gli occhietti. Montagne di vivande sparivano dai piatti davanti a lui, rapidamente maciullate dai solidi denti dell'ampia bocca, inghiottite con vorace avidità, inaffiate da copiosi bicchieri di vino. La mamma, al confronto, mi sembrava un uccellino che beccasse appena le vivande; io, non occorre dirlo, mi riconoscevo assai meno: una mosca, un insettuccio.

Dopo desinare, quando non mi conduceva via con sè, lo guardavo dalla finestra; lo udivo gridare coi contadini, lo vedevo gesticolare, lontano; lo perdevo di vista tra gli alberi, e, poco dopo, lo rivedevo lassù, in cima alla collina, quasi vi fosse giunto con una volata; poi, in brevi minuti, di ritorno, frettoloso, pronto a partire.

—Vuoi venire con me?

Non rispondevo, interrogando con gli occhi la mamma.

—Lo porto in carrozza fino alla stazione.

La mamma non voleva. Era distante la stazione; avrei fatto troppo tardi.

Egli mi afferrava con le ossute mani, mi sollevava fino alle sue labbra, come un giocattolino, come un fuscello, mi strusciava di nuovo la faccia coi baffi e con la barba, per farmi il solletico—ci si divertiva—mi dava parecchi baci, mi riponeva a terra con atto rapido da sembrare che volesse buttarmi via, e spariva.

Quell'impressione di abbrividimento mi durava tutta la giornata.

La mamma mi faceva da maestra perchè almeno non dimenticassi il poco che avevo appreso a scuola, e le sue lezioni oltrepassavano di rado il quarto d'ora. Aveva paura di affaticarmi. Scambiava per stanchezza la nessuna curiosità di apprendere che io dimostravo.

Ella, sì, leggeva molto, in camera o nel prato all'ombra di un albero, mentre io giocavo fiaccamente coi bambini del mezzadro, che, vivacissimi, si sentivano impacciati della mia indifferenza. Qualche volta essi si arrestavano per guardarmi bene, stupiti di scorgermi così dissimile da loro, quantunque fanciullo come loro.

Una volta, accorso dalla mamma per domandarle la spiegazione di non so che cosa, la trovai che piangeva, pur continuando a leggere. Mi fermai a pochi passi da lei, non osando di avvicinarmi.

—Che hai? Perchè piangi, mamma?

Dalla sua risposta capii che la faceva piangere quel libro.

—Buttalo via,—le dissi,—è un libro cattivo!

—No, è anzi un bel libro,—rispose.—Un giorno, quando sarai grande, piangerai anche tu talvolta, leggendo. Non si piange di dolore, ma di piacere.

Non compresi; e tornai dai miei compagni, facendo dentro di me proponimento che quando sarei stato grande non avrei letto mai, mai, libri che potessero farmi piangere.

Ora mi sembra strano che io abbia potuto pensare una cosa simile. Ordinariamente, niente mi spingeva a riflettere anche un istante da fanciullo, come soltanto avrei potuto fare con la mia piccola intelligenza. Le sensazioni mi sfioravano appena, si smussavano nel mio contatto. Ero simile a una di quelle larghe foglie di piante acquatiche nuotanti nella vasca davanti a la villa, che non si bagnavano mai, e lasciavano scivolar l'acqua in goccioline iridate, senza neppur ritenerne l'umidore.

III.

Indice

Allo stesso modo avevo attraversato la giovinezza nelle scuole superiori imparando attentamente quel che m'insegnavano, riponendolo, con ordine, nei varii scompartimenti della memoria, come avrei potuto disporre nelle vetrine d'un museo minerali, conchiglie, farfalle, oggetti rari e preziosi, senza che tutto quel materiale prendesse realmente possesso di me, o, per dir meglio, senza che me lo assimilassi, lo rendessi pensiero mio; se non pensiero—era troppo presto—sentimento mio, insomma, intima parte del mio organismo spirituale.

Le cose da studiare giornalmente erano troppe. Le mie scarse forze vi si esaurivano. Non me ne rimanevano affatto per prender parte al chiasso, agli scherzi, alle scapataggini dei miei compagni. I quali, per qualche tempo, mi canzonarono spietatamente, chiamandomi: «la signorina». Poi, mi lasciarono in pace, non occupandosi più di me, quasi non esistessi per loro e non fossi un collega.

Tre di essi, cinque anni dopo, si stringevano con me in amicizia di studio; un po' forse, per la ragione che potevano approfittare delle nuove pubblicazioni italiane e francesi che io avevo i mezzi di comprare e che compravo perchè un libraio, per ordine di mio padre, me le mandava in osservazione a casa, e rimanevano sul mio tavolino, non badando io a restituirle neppure quando non facevamo per me; un po' anche perchè la mia attenzione allo studio, la facilità con cui apprendevo e ritenevo le cose apprese mi davano agli occhi loro una superiorità di cui non potevo insuperbirmi, non avendone nessuna coscienza.

Essi possedevano—specialmente due—assai più ingegno di me. Erano infatuati dell'arte, e cominciavano già a scrivere in certi giornali. Il terzo suppliva con la faccia tosta, con la presunzione, a l'ingegno che gli mancava. Discuteva con tutti schiamazzando, trinciando giudizi sbalorditivi, dicendo spropositi con aria così tranquilla, così convinta, che io lo stimavo quasi più di quegli altri, quantunque lo sapessi mediocrissimo. La sua faccia tosta, la sua presunzione mi parevano indizio di forza.

Ci riunivamo in casa mia nei giorni di vacanza. Facevamo qualche lettura—Bissi leggeva benissimo, con un po' di teatralità, se si vuole, ma efficacemente—e poi ci mettevamo a ragionare intorno ai lavori letti: poesia, novella, capitolo di romanzo. Dovrei dire—si mettevano a ragionare: il Lenzi e il Bissi avendo sempre molte belle cose da dire; il Lostini spropositando e chiacchierando per lo meno quanto quei due presi insieme.

Io mi meravigliavo di quel che il Lenzi e il Bissi potevano e sapevano cavare dal fondo dell'anima loro, suggestionati dalla lettura. Mi meravigliavo egualmente di quell'ammasso di cose strampalate che il Lostini sbrodolava; quasi spiattellasse le cose più nuove e più interessanti di questo mondo. A me non riusciva di dir nulla. Eppure mi pareva che avrei potuto dire le stesse cose che il Lenzi e il Bissi dicevano. Provavo la strana sensazione che essi parlassero pure per conto mio e che quelle idee me le cavassero di mente per mezzo di qualche operazione magica a me ignota; tanto le riconoscevo conformi al mio modo di sentire e di pensare. Se non che ero convinto che, da me, non avrei mai saputo metterle fuori, anzi che non avrei mai avuto, senza l'aiuto dei miei amici, neppure il sospetto che esse esistessero nel mio cervello.

A poco a poco intanto cominciavo ad avventurarmi nelle discussioni, a tentar di formolare con la parola quel che mi ribolliva in istato di indefinitezza nella mente e nel cuore. La parola, dapprima restìa, vaga, scialba, diveniva facile, colorita. La mia attitudine all'osservazione arguta e giusta si svolgeva lentamente ma gradualmente. Ora, infine, si meravigliavano essi di quel che dicevo; ma io me ne stupivo più di loro. Sentivo un piacere doppio, squisitissimo, e per la cosa detta e perchè l'avevo detta io, senza che altri me la cavasse fuori a mia insaputa.

Ma quando, dopo due o tre ore di questo esercizio, essi mi lasciavano perchè io non volevo seguirli a una passeggiata, a un divertimento dove sapevo che sarei rimasto estraneo per la mia timidezza e la mia ombrosità, mi sentivo riafferrare dal mio solito torpore; quasi l'anima mia tornasse a rinchiudersi dentro quel guscio da cui si era affacciata un istante per impulso altrui e non per sua propria virtù.

Il Lenzi e il Bissi erano due bei giovani: l'uno, biondo, con folti baffi e occhi cilestri, svelto della persona, di modi signorili, che l'accuratezza del vestire faceva spiccare meglio; l'altro, bruno, con occhi nerissimi, vivacissimi, barbetta fina, appuntata, baffetti un po' radi e capelli densi, tagliati a spazzola, sui quali il cappello a larghe tese non era mai calcato, quasi pesasse troppo e impacciasse la spaziosa fronte dentro cui si agitavano tante e tante cose—sogni d'arte e lieti fantasmi di avvenire. Il Lostini, alto, magrissimo, con mani che sembravano granfie, andava sempre in tuba e abito chiuso, con enormi colletti, enormi polsini, enormissime cravatte rosse o azzurre, spille da dar nell'occhio lontano un miglio, vistosi fiori all'occhiello e mazza con pomo di argento, ogni cosa all'ultima foggia e così esageratamente da far fermare le persone per via. Eppure io lo ammiravo; mi pareva che occorresse un bel coraggio per mascherarsi a quel modo.

Tutti i giovedì e tutte le domeniche egli arrivava in casa mia con un gran rotolo di manoscritto. Il Lenzi e il Bissi lo prendevano in giro spietatamente; gli davano senza cerimonie dell'asino e del cretino; ma egli non se ne offendeva. Spiegava il manoscritto sorridendo, lasciava passare la sturata dei motti pungenti, delle sanguinose ironie, e cominciava a leggere. Notavo che, alla fine, egli riusciva sempre a farsi ascoltare e discutere.

—Via, ditemelo francamente: non c'è male, mi pare. Questa volta l'ho imbroccata.

Non l'aveva imbroccata affatto. Io stupivo, riflettevo come mai non si accorgesse della miseria dell'opera sua, che il Lenzi e il Bissi gli analizzavano punto per punto, riducendogliela in minuzzoli, polverizzandola.

—E non parlo delle sgrammaticature!—conchiudeva il Bissi.

—Sgrammaticature poi! È un po' troppo!—egli protestava ridendo.—Lo dite per farmi arrabbiare. No; questa volta l'ho imbroccata!

E andava via con tale convinzione, annunziando tronfiamente che preparava un volume di versi giovanili, editi e inediti, per mettere in evidenza il proprio nome, per forzar la mano al pubblico. Aveva già trecento abbonati; le spese di stampa erano coperte. I guadagni sarebbero venuti dopo.

Il Lenzi e il Bissi parlavano anch'essi del loro avvenire, ma entravano nella mischia, nella lotta per la vita, ben altrimenti preparati ed armati.

Il Lenzi, studiando diritto, mirava alla deputazione, o alla diplomazia; avrebbe scelto quando fosse arrivato il momento opportuno; non disperava di diventare, un giorno o l'altro, ministro del regno d'Italia. Intanto, per rifarsi dell'aridità degli studi scientifici, si divagava con studi d'arte; li stimava valevoli mezzi, armi poderose, anche per un uomo politico.

Il Bissi, invece, odiava la politica, regno delle mediocrità, secondo lui, della volgarità, della materialità. L'attuale decadenza degli ingegni e dei caratteri non si doveva tutta ad essa? E non leggeva giornali quotidiani, viveva chiuso nel suo mondo estetico, ambizioso soltanto di guadagnarsi un bel posto nel gran movimento di rinnovazione artistica, che affermava prossimo a rivelarsi. In questa nuova fase della vita italiana, egli voleva trovarsi alla testa del movimento…. o tirarsi un colpo di pistola. Non cercava vie di mezzo; e si preparava benissimo anche lui.

Io soltanto non scorgevo nessun avvenire per me.

Non osavo fermarmi un momento a riflettere quale avrebbe potuto mai essere, nel caso che mi fossi deciso a rappresentare una parte attiva nella società. Non mi riconoscevo nessuna attitudine speciale, spiccata, per l'arte, nè per la politica, e molto meno per l'azione di qualunque natura. Mi sentivo condannato a vivere da parassita, a consumare senza produrre, a trascinarmi impotente tra la folla portata via dal turbine dell'attività industriale, letteraria, politica; oggetto di compassione o di riso o di disprezzo; fantasma tra tanti vivi. Niente altro!

Era possibile?

Eppure potevo osservare che qualche non lieve mutamento era avvenuto in me durante quegli anni di apparente inerzia. Un fine senso della concezione d'arte già traspariva dai miei ragionamenti. A ogni nuova lettura, mi sembrava che i confini della mia intelligenza si fossero spostati; intravedevo che un sordo lavorìo era dovuto accadere e accadeva tuttavia dentro di me; lavorìo di digestione, di chilificazione delle immense letture, operato nei più misteriosi recessi del pensiero, dell'energia intellettuale, allo stesso modo della digestione e della chilificazione dell'organismo fisico, se in certi momenti mi riconoscevo cresciuto e fortificato spiritualmente come prima non ero.

Perchè non mi provavo a fare, a produrre?

Il Lostini non riusciva perchè non sapeva, e intanto aveva l'illusione di poter fare, ingannato dalla sua fatuità e dalla sua presunzione. Col Lenzi e col Bissi non ardivo di paragonarmi. Erano organismi perfetti, delicatissimi; sapevano quel che volevano, dove tendevano e dovevano arrivare, e già coordinavano ogni loro minimo atto con quello scopo, sicuri delle loro forze, pronti ad abbattere gli ostacoli e col presentimento dell'immancabile vittoria in fondo al cuore.

Come li ammiravo e come li invidiavo!

IV.

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Avevo probabilmente un'istintiva coscienza del mio difetto essenziale; capivo forse, senza possederne ancora netta intuizione, quel che c'era d'immensamente sproporzionato tra gli ideali che mi brillavano nella mente e le mie forze fisiche e intellettuali che avrebbero dovuto metterli in atto. Perciò evitavo di tentare. Avevo paura della delusione che subito sarebbe venuta dietro al tentativo. Pure, una volta, mi lasciai trascinare.

La virtuosità del Lenzi non mi produceva più il gran senso d'ammirazione di prima. Egli poteva scrivere una poesia, una novella, un articolo di critica—con noi parlava di arte soltanto; i suoi saggi di scienze giuridiche non ce li faceva neppur vedere—e non far mai cosa volgare. Versi e prose però non lasciavano trasparire una personalità originale. I riflessi altrui vi venivano fuori evidentissimi, quantunque assimilati con garbo. Egli stesso non dava nessuna importanza a quei capricci che rivelavano, qua e là, un'anima aperta alle diverse espressioni dell'arte.

Pel Bissi, l'arte era cosa sacra. Gli tremava la voce parlandone. Sapevamo che lavorava, lavorava; ma niente di preciso egli ci diceva dei suoi lavori, impedito da quella sua profonda riverenza religiosa, da quel suo gran pudore di artista che non voleva profanare la bellezza, mostrando gli abbozzi informi dov'essa non era riuscita a palesarsi intera.

Un giorno, finalmente, lo vedemmo arrivare a casa mia col cappello a larghe falde sulla nuca, con gli occhi raggianti, quasi spauriti.

—Vorrei leggervi….

E si era arrestato, per guardarci in viso.

Non dimenticherò mai le impressioni di quella giornata, l'urto, la spinta ricevuti, per cui potei illudermi che un uomo nuovo si fosse improvvisamente rivelato dentro di me, ricco di facoltà inattese e stupende. Per la prima volta non mi trovavo più di fronte a un'opera d'arte della quale non potevo penetrare tutti i misteri perchè ignoto mi era il processo d'incubazione che l'aveva formata ignota la persona dentro il cuore e la mente della quale esso aveva avuto luogo, ignoto l'ambiente che aveva contribuito ad agevolarlo.

Mentre il Bissi leggeva, io avevo la pura visione del miracolo creativo in atto. In quei personaggi della sua novella, nel loro sentimenti, nelle loro passioni, nelle azioni, nelle parole, nel paesaggio, in ogni minimo particolare, io riconoscevo qualcosa; ne indovinavo la provenienza; scoprivo relazioni intimissime. Assistevo al mirabile lavoro di fusione e di organamento, all'esplosione della vita, e senza che quell'analisi nuocesse punto all'effetto dell'insieme. Vedevo, per dir così, le parole, le immagini accorrere spontaneamente, come per virtù di attrazione, aggrupparsi, combinarsi. E con le parole e con le immagini le cose, i colori, i sentimenti; particelle di osservazioni fatte insieme; fitto pulviscolo di sensazioni, di reminiscenze sue e mie, che si era agglomerato, ed era diventato unità, forma, avvenimento, opera d'arte insomma. La quale era l'anima di colui che leggeva, e, nello stesso tempo, cosa affatto diversa; riproduceva in sè l'accento della voce di lui, ne rivelava i gesti, tutta l'aria della persona, eppure non poteva dirsi precisamente lui, perchè quelle poche creature, di cui la novella narrava i casi, svolgeva le passioni, riferiva i dialoghi, erano poi creature viventi da per loro, col loro accento, coi loro gusti, con la loro distinta individualità, proprio come colui che le aveva create e che non aveva niente di comune con noi tre intenti ad ascoltarlo, rapiti!

La potentissima corrente che si era sprigionata, da quell'opera d'arte mi aveva penetrato, abitato, reso convulso.

Producendo una benefica rivelazione di me a me stesso, mi aveva infuso potenza di creazione artistica, quasi essa non fosse stata opera del mio amico, ma mia; quasi il Bissi non avesse fatto altro che leggerla benissimo, come io non avrei saputo, prestandomi soltanto la voce, l'accento, e nulla più.

E quando la lettura fu terminata, e il Lostini, levando in alto le scarne mani, esclamò scioccamente, al suo solito:—Tu sarai il primo simbolista d'Italia!—io, che ordinariamente tacevo e lasciavo prima parlare gli altri, scoppiai in un energico:

—Zitto! Non dire bestialità!

E abbracciai e baciai il Bissi che invocava, umile e commosso, il giudizio del Lenzi e il mio.

Attesi con impazienza che essi fossero andati via per raccogliermi, per mettermi subito al lavoro. Avevo dentro di me un confuso ribollimento da cui credevo dovesse immediatamente scaturire una consimile opera d'arte: novella, romanzo, non avrei saputo specificarlo; ma qualcosa di vivo, di nuovo.

E per due settimane l'illusione persistette, diminuendo a poco a poco d'intensità, senza che io me n'accorgessi.

Lottavo accanitamente contro la resistenza che la forma mi opponeva; mettevo il mio stento a carico dell'inesperienza, delle difficoltà d'un primo serio tentativo; chiudeva gli orecchi alla voce della coscienza critica che si andava risvegliando e mi faceva intravedere tutta la inettezza del mio lavoro. Alla fine, non ebbi neppure il coraggio di consultare gli amici; avevo riconosciuto la mia impotenza creativa in maniera così evidente, che ne sentivo vergogna e rimorso come di un delitto commesso di nascosto. Ero riuscito a far peggio, molto peggio del Lostini!

Negli scritti di lui v'era la volgarità, la sciattezza, ma qualcosa di organico; nel mio lavoro questo qualcosa mancava.

Il Lostini, studiando, avrebbe potuto riuscire a far meglio, forse a far bene; io no. In quel cervello bislacco e incolto esisteva quel tal «che» indefinibile che nessuno studio può far acquistare.

Oh, non era più possibile illudermi! Avrei potuto divenire qualunque cosa; grande artista, no, mai! E la mediocrità, che a quel giovane non dava ombra, a me faceva orrore. Quest'orgoglioso sentimento era il mio supplizio.

Allora, con spietata insistenza, presi a studiare tutti i sintomi della malattia che mi affliggeva.

Che cosa avrei potuto essere?

L'avvocatura richiedeva mezzi diversi da quelli dell'arte; ma mi mancava la fluidità della parola, l'arditezza e la rapidità della concezione che fanno dell'avvocato un mirabile stratego. Mi mancava, sopratutto, quell'elasticità di coscienza da permettermi di credere alla bontà di qualunque causa, purchè vi fossero stati un'imboscata, un tranello da tendere al codice o alla procedura; e mi ripugnava il sapere che sarei stato cosa del cliente, suo schiavo!

La medicina e la chirurgia mi venivano interdette dalla mia debole costituzione; il male fisico mi dava nausee invincibili; e mi repugnava inoltre, egualmente, il dover essere cosa del cliente, suo schiavo!

Gli affari?

Avevo l'esempio di mio padre. Ne avevano assorbito tutta la forza, tutta l'attività, tutto l'ingegno. Era stato forse un uomo libero lui, attanagliato dalle grosse speculazioni, dai grossi appalti, dai giuochi di borsa, sempre agitato dall'ansia di un tracollo e dalla crescente smania di guadagnare sempre più?