Il manoscritto del canto che qui appresso pubblichiamo ci venne recato settimane fa dalla posta, insieme a una letterina molto gentile per noi.
Ricevendo ogni giorno una quantità straordinaria di manoscritti di versi, siamo (è facile capirlo) diventati un po' diffidenti in fatto di autori sconosciuti. Questa volta però la nostra diffidenza fu subito vinta dal vedere il caso alquanto strano di un poeta che ambendo, come cortesemente egli si esprime, l'onore del nostro elzeviro, voleva conservar l'anonimo persino col suo editore, anzi, e sopratutti col suo editore, la letterina diceva.
Leggemmo dunque e da principio, lo confessiamo, con qualche sorpresa e con piacere. Ma inoltrati vie più nella lettura ci sentimmo a poco a poco sopraffatti da un sentimento di dubbio e di sospetto che sarà, crediamo, partecipato dai lettori.
Avevamo fra le mani un lavoro scritto sul serio, o la satira fina ed urbana di una forma poetica?
La prefazione, che spiegava il concetto morale e la ragione estetica del lavoro, pretendeva si trattasse di una cosa sul serio.
«Non è senza profonda trepidanza che io metto fuori il primo canto di un nuovo poema, mentre l'Italia, anzi l'Europa si è appena stancata dall'applaudire il Lucifero; e quando sentiamo da ogni parte, a proposito di esso, con insistenza ripetere che l'epopea se ne giaccia morta da un buon paio di secoli e vano sia qualunque sforzo per richiamarla alla vita.
gran morta